Un grido si alza intorno al cratere di terra rossa quando ieri sera, intorno alle nove e mezzo, i soccorritori con i gilet gialli si allargano per lasciar passare una piccola lettiga coperta da un lenzuolo bianco. Dopo quasi cento ore passate in fondo a un pozzo, a 32 metri sotto terra, il piccolo Rayan è stato riportato all’aria, ai suoi genitori che lo aspettavano accanto all’ambulanza. Ma è troppo tardi: Rayan Oram ha lottato fino all’ultimo ma non ce l’ha fatta. Il re Mohammed VI è stato il primo a parlare con Khaled Oram e sua moglie Wassima: nonostante tutti i mezzi messi a disposizione, non c’è stato niente da fare: la caduta, le ferite, i giorni senza cibo. La folla che da martedì sera si era accalcata intorno a quel buco, aveva lasciato esplodere un grido liberatorio, quando le fotoelettriche avevano rischiarato l’uscita degli uomini dal quel cratere, facendo largo al lettino. Dal clamore del momento, per diversi minuti non sono filtrate informazioni sulle condizioni di Rayan. Poi l’annuncio. La disperazione.
LA SPERANZA
Ieri sera, al tramonto, quando si erano riaccese le luci per la quinta notte, mancavano solo 70 centimetri. Là sotto, a 32 metri di profondità, il piccolo Rayan continuava a respirare, così assicuravano tutti, fuori, sul bordo di un cratere aperto per tirarlo in salvo da quel pozzo, la folla continuava a pregare Allah. Da martedì, ora dopo ora, sono stati milioni gli occhi che hanno seguito la corsa contro il tempo per riportare alla luce il piccolo di 5 anni. Gli ultimi due metri di terra, ieri pomeriggio, li ha tolti Ali con le sue mani. Era arrivato da solo, da lontano, da Erfoud, a sud, perché era convinto di poter fare meglio dei tecnici che da quattro giorni erano al lavoro nel cratere aperto sulle pendici montagnose del Rif, vicino a Bab Berred, nel nord del Marocco.
Perché nei pozzi Ali ci passa la vita, è il suo lavoro da quando è un ragazzino: scavarli, assicurarne la manutenzione.
ULTIMO TENTATIVO
L’ultima fase dell’operazione è cominciata venerdì, quando si è concluso lo scavo della voragine parallela al pozzo. Come a Vermicino, 41 anni fa: quando si tentò disperatamente di salvare Alfredino Rampi. Ma con Rayan le cose sarebbero andate diversamente, perché lui continuava a dare segni di vita. Fino a ieri mattina, quando, con voce flebile, ha risposto al papà. «Lo sento – ha detto Khaled – ma respira a fatica». In questi giorni, Rayan aveva continuato a ricevere ossigeno e acqua dall’alto, ma i soccorritori dicevano a mezza voce che non erano sicuri che riuscisse a bere. Ieri è apparso subito chiaro che non c’era più tempo: è partito lo scavo del corridoio orizzontale, sei metri di terra ma anche strati di rocce, che hanno opposto resistenza alle trivelle.
È stato necessario fermarsi, introdurre un tubo per consolidare l’accesso fino al piccolo e poi la via d’uscita. A metà giornata, quando si moltiplicavano le voci e le smentite (“è morto”, “no, lo hanno preso”, “ha lesioni gravi non riescono a portarlo in superficie”) il capo della squadra dei soccorsi Murad al Jazouli, era venuto fuori per dire davanti alle telecamere «È vivo, e lo tireremo fuori». Le ultime immagini inviate da una mini-telecamera calata in fondo al pozzo, mostravano Rayan accovacciato su un lato. «Difficile dire da qui quali siano le sue condizioni – aveva detto un soccorritore – ma vogliamo essere ottimisti». Ieri, quando il freddo ha cominciato a scendere di nuovo, insieme alla notte, davanti alla bocca del cratere è arrivata un’ambulanza. Con gli ultimi tecnici si sono calati sotto terra anche due medici, un anestesista e un rianimatore. Non hanno potuto fare niente.