Gaza, il dramma degli ostaggi dimenticati: 25 braccianti thailandesi nelle mani di Hamas

Gaza, il dramma degli ostaggi dimenticati: 25 braccianti thailandesi nelle mani di Hamas
di Mauro Evangelisti
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Martedì 14 Novembre 2023, 15:56 - Ultimo aggiornamento: 15 Novembre, 15:04

Il numero è impressionante eppure è passato sotto silenzio: più del 10 per cento degli ostaggi - 25 su 239 - non sono né militari né cittadini dello Stato ebraico. Sono thailandesi, spesso dell'Isaan (regione del Nord-Est dello stato asiatico) che pur di guadagnare un po' di soldi da inviare alle proprie famiglie hanno accettato di andare a lavorare a 9mila chilometri o 11 ore di volo dalla propria terra come braccianti agricoli nelle aziende agricole israeliane non lontano dal confine con la Striscia di Gaza.

I terroristi di Hamas - spietati nell'uccidere anche bambini, neonati e anziani israeliani -  non si sono fermati neppure di fronte a questi braccianti di origine thailandese i cui lineamenti spiegavano chiaramente che si trovavano lì solo perché erano molto poveri e avevano bisogno di un lavoro e di un reddito. Molti thailandesi sono stati uccisi: nel totale delle 1.300 vittime, 39 sono thai e nei giorni scorsi le loro salme sono state rimpatriate.

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Gli ostaggi

Altri 25 sono stati presi come prigionieri e ora si trovano nei tunnel di Hamas da cinque settimane in condizioni disperate in uno scenario così differente da quello della loro precedente vita quotidiana in qualche villaggio dell'Isaan. Il governo thailandese è stato molto moderato nelle reazioni per due ragioni: nel Sud della Thailandia c'è una comunità musulmana. Negli anni ci sono stati diversi attacchi terroristici perché c'è chi vorrebbe l'indipendenza dalla Thailandia che invece è di religione buddista. Bangkok ha evitato commenti molto duri contro il massacro del 7 ottobre per evitare nuove tensioni interne.

La seconda ragione è che il governo thai ha cominciato una trattativa pararallela con Hamas, alla quale hanno partecipato anche esponenti della comunità musulmana thailandese per ottenere il rilascio degli ostaggi originari del Paese asiatico.

Al di là degli annunci, per ora non ci sono stati risultati concreti anche se il ministro degli Esteri, Parnpree Bahiddha-Nukara, ha dichiarato di aspettarsi che i suoi connazionali «siano tra i primi ostaggi a essere rilasciati da Hamas».

I familiari degli ostaggi, dalla Thailandia, hanno lanciato numerosi appelli. Suntree Saelee, moglie del ventiseienne Kong Salau, che lavorava in un'azienda che coltiva avocado a Khirbet Mador ha raccontato al Bangkok Post: «Mio marito era lì solo per lavorava, stava tentando di guadagnare i soldi per costruire una nuova casa». Ma gli ostaggi thai, oltre alla sofferenza che stanno affrontando, sopportano anche una condizione di "fantasma": nessuno parla di loro, nessuno nelle numerose manifestazioni svoltesi in occidente con bandiere palestinesi ha speso una sola parola per chiedere il loro rilascio. Nessun civile merita l'incubo dei bombardamenti dell'esercito israeliano che vuole stanare Hamas o la condizione di prigioniero dei terroristi, ma per i braccianti thailandesi questo è ancora più evidente perché si trovano in uno scenario di guerra con il quale non c'entrano davvero nulla.

Il massacro

In totale i braccianti agricoli thailandesi prima del massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas erano circa 30mila. Poco meno di 9mila hanno scelto di tornare a casa, e il governo thai ha organizzato dei voli speciali. In 21mila hanno scelto di restare, probabilmente perché non possono rinunciare a quel reddito. Nelle aziende agricole israeliane però la perdita di mano d'opera sta causando seri problemi. Racconta Times of Israel: i villaggi e i kibbutz più lontani dal confine con la Striscia di Gaza, «che si trovano fuori dalla portata dei cecchini, stanno vedendo una ripresa dell’attività agricola anche in assenza di lavoratori stranieri grazie a un flusso costante di migliaia di volontari israeliani che prendono il posto degli stranieri per aiutare gli agricoltori a rimanere a galla e assistere nello sforzo bellico».

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