Attacco Iran a Israele, l’ambasciatore Stefanini: «Netanyhau risponderà all’attacco, ma senza provocare un’escalation»

“L’attacco di Teheran dal punto di vista militare non ha ottenuto risultati ma ha marcato il punto”

Stefano Stefanini
di Marco Ventura
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Domenica 14 Aprile 2024, 22:34 - Ultimo aggiornamento: 15 Aprile, 00:07

Israele reagirà? E come? «Esistono varie gradazioni di una possibile risposta israeliana, dobbiamo sempre cercare di metterci nella mentalità mediorientale: se non rispondi, sembri debole. Se Israele, attaccato sul proprio territorio, non dimostra all’Iran che può colpire a sua volta, dà un segnale di vulnerabilità. È la logica tragica del Medio Oriente». Per l’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante dell’Italia presso la Nato, Tel Aviv potrebbe alla fine sferrare «un attacco simbolico, senza necessariamente provocare una escalation».

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E se invece sceglierà di rispondere in modo massiccio?

«Ci sarà l’escalation.

L’Iran a sua volta vorrà rispondere come ha già detto che farebbe, e gli Stati Uniti aiuterebbero sicuramente Israele nel caso in cui Tel Aviv fosse sottoposto a una ulteriore, pesante contro-risposta».

È il meccanismo della spirale. Potrebbe intervenire anche la Russia?

«Putin ha abbastanza da fare in Ucraina. Un intervento in Medio Oriente contro Israele, che ha quasi un terzo della popolazione di origine russa, è improbabile. La Russia probabilmente si comporterebbe come a suo tempo l’Urss nella guerra del Kippur del ’73, cercando con minacce e movimenti di dare un sostegno politico all’Iran, ma si fermerebbe lì. Oggi però tutto è ipotizzabile, non mi sento di escludere niente».

Gli analisti sostenevano che l’Iran non avrebbe attaccato Israele…

«Gli analisti spesso sbagliano e mi ci metto anch’io. In compenso, non ha sbagliato l’Intelligence americana, che aveva anticipato l’attacco e anche azzeccato i tempi, 24-48 ore rispetto a quando lo ha annunciato».

In passato Teheran aveva preferito azioni contro Israele attraverso le milizie proxy. Che cosa è cambiato questa volta?

«Il bombardamento dell’ambasciata d’Iran a Damasco è stato interpretato, o forse volutamente letto, da Teheran come un attacco sul suo territorio. E in base alla regola mediorientale per cui se mi dai tanto, devo darti tanto, ha ritenuto di dover rispondere dimostrando di poter colpire dal suo territorio, direttamente con mezzi iraniani e non per procura, quello di Israele».

 

Ma l’attacco è fallito?

«Dal punto di vista militare sì, perché non ha ottenuto risultati, ma per gli iraniani ha marcato il punto: noi possiamo colpire Israele, e con questa etichetta è venduto anche all’interno del Paese. Se poi qualche testa più ragionante a Teheran ci riflette, capisce di aver subito una sconfitta. Ci troviamo di fronte a un doppio successo di Israele, che ha dato prova di capacità difensiva e anche di tenuta delle alleanze politiche. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giordania hanno aiutato Israele a difendersi. Al tempo stesso, va detto che l’Iran ha capacità militari ben superiori a quelle che ha dispiegato l’altra notte. Però se lanci trecento droni e missili, ti aspetti di arrecare qualche danno. E questo non è successo».

C’è stata una rivincita della tecnologia rispetto alla sua sconfitta il 7 ottobre con Hamas?

«È una chiave di lettura. Israele ha capacità militari nettamente superiori a quelle iraniane. Ma questa è una guerra ibrida. E l’insuccesso dei missili iraniani non deve far dimenticare i risultati politici ottenuti con il 7 ottobre, se non altro quello di spaccare l’intesa che si stava preparando fra Arabia Saudita e Israele. Inoltre, oggi Teheran è paladina della causa palestinese nel mondo arabo, e ha costretto Israele a una guerra a Gaza che Tel Aviv non solo non sta vincendo, ma che sta creando due gravi conseguenze: una terribile crisi umanitaria per due milioni di palestinesi, e l’isolamento di Israele che è stato rotto proprio con l’attacco di ieri».

Adesso la palla è in campo israeliano?

«In Israele c’è un partito della rappresaglia che crede che l’Iran, attaccando direttamente, abbia attraversato una linea rossa e sia il momento di dare una botta a Teheran che da tempo si desiderava infliggere. È dal 1979 che gli Ayatollah minacciano fuoco e fiamme, ma l’Iran non aveva mai colpito in modo diretto. E c’è chi invece, a Tel Aviv e non solo, ritiene che Israele debba incassare il successo militare, difensivo e politico, e quindi sia meglio che non reagisca ulteriormente. Anche gli americani premono in questo senso, per evitare l’allargamento regionale del conflitto e perseguire invece la via del rinnovamento democratico. Gli israeliani potrebbero alla fine prendere tempo o scegliere un obiettivo intermedio».

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