Quote rosa, stop alla crescita: le ad sono solo 14. «Serve un cambiamento culturale»

L Italia è ancora al 76° Paese per disparità di genere sui 149 censiti dal World Economic Forum
di Stefania Piras
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Lunedì 17 Febbraio 2020, 23:35 - Ultimo aggiornamento: 2 Marzo, 09:22

Amate e odiate. Ora spunta che sono state perfino ininfluenti. Le quote rosa non hanno favorito la presenza femminile né tra le posizioni apicali delle aziende né tra le occupazioni a più elevato reddito. Sono appena 14 gli Amministratori Delegati donna (6,3%) e 24 i Presidenti (10,7%). Nei collegi sindacali, il ruolo di Presidente è ricoperto da 49 donne, pari al 22% di tutte le società quotate. Lo dice il primo Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020 sulle donne ai vertici delle imprese, realizzato in collaborazione con l’Inps, che analizza l’impatto sulle aziende italiane della legge Golfo-Mosca anche rispetto ad altre dimensioni del gender gap. E che arriva a una conclusione: «Le quote non possono sostituire un cambiamento culturale, restano gap considerevoli nelle posizioni principali e a più alto reddito».

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Il rapporto
I risultati fotografano un boom ottimistico soprattutto nelle società quotate nel primo anno della legge approvata nel 2012. Poi l’ ”effetto trascinamento” che ci si attendeva sulle non quotate si è registrato in parte solo nelle grandi realtà, dove però gli Amministratori Delegato donna sono appena l’8,4%. 
Ma vediamo i numeri di questo rallentamento: per la prima volta nel 2017 il numero delle donne nei board delle società quotate è stato maggiore di un terzo rispetto al totale dei membri, nel 2019 la crescita ha subito un rallentamento, mostrando solo due unità in più rispetto al 2018. In totale c'è stato un incremento delle donne nei CdA delle società quotate alla Borsa di Milano da 170 nel 2008 (il 5,9%) alle 811 di oggi, (il 36,3%) mentre nei collegi sindacali c'è stato un vero exploit: si è passati dal 13,4% del 2012 al 41,6% del 2019, con 475 sindaci donne.

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Il Rapporto mostra luci e ombre di un divario considerato storico. L’Italia è ancora al 76° Paese per disparità di genere sui 149 censiti dal World Economic Forum. Siamo agli ultimi posti tra gli Stati più avanzati. Rispetto al 2006 ha guadagnato una posizione grazie all’introduzione delle quote di genere nella composizione delle liste elettorali, ma negli altri ambiti ha evidenziato chiari peggioramenti: ad esempio, per quanto riguarda le opportunità economiche è scivolato al 117° posto, con performance particolarmente negative in termini di parità salariale. In Italia è occupato il 56,2% delle donne tra i 15 e 64 anni contro il 75,1% degli uomini, una percentuale che risulta tra le più basse all’interno dei 37 Paesi censiti da Eurostat. Peggio di noi, solo Macedonia e Turchia. Un gap che si riduce ma non si annulla con il diminuire delle fasce di età, dunque non dipende da ragioni generazionali.

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L'occupazione
Dei 10 milioni di donne occupate, il 54,2% è al Nord, il 23,3% al Sud e il 22,5% al Centro. Quanto al profilo professionale, i dati Istat chiariscono bene il divario di genere: tra i quadri la percentuale di donne è del 45%, mentre precipita al 31,9% tra i dirigenti. Anche il gender gap salariale in Italia continua a essere molto elevato: in base ai dati di Job Pricing, la disparità di retribuzioni tra uomini e donne è in media del 10,2% e risulta maggiore nelle mansioni di impiegato (-9,6%) e operaio (-10,6%), si assottiglia per i quadri (-4,3%) per poi ritornare alto tra i dirigenti (-9%).

I cda
Cosa è cambiato invece nei CdA italiani? Che sono entrate donne più giovani rispetto ai colleghi.  L’età media delle donne tra gli Amministratori è di 53 anni (59 gli uomini), tra gli Amministratori Delegati 55 (57 gli uomini), tra i Presidenti 60 (contro 63). Situazione analoga nei collegi sindacali, in cui le donne hanno mediamente 52 anni contro i 57 degli uomini (54 contro 58 se sono Presidenti).
Inoltre, le donne sono multitasking: sono presenti nei board hanno più frequentemente cariche in altre società quotate: il 21,7% ne possiede almeno un’altra (l’11% tra gli uomini), probabilmente perché sono poche quelle a poter vantare un’esperienza in un CdA. In termini assoluti, sono 88 le donne che siedono almeno in un altro board (il 13,8% contro l’8,8% degli uomini).

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Collegi sindacali
Passando alle società a controllo pubblico, secondo i dati che Cerved elabora per il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal 2014 al 2019, cioè dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 251/2012, la presenza delle donne nei Consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali è aumentato di quasi 3.000 unità (da 2.180 a quasi 5.000) passando dal 14,3% al 32,5%, ma senza superare la quota di un terzo. Nello stesso periodo, gli uomini ai vertici degli organi collegiali sono scesi da 19.000 a 10.000. È fortemente aumentato (da 1.153 nel 2014 a 1.533 nel 2019) anche il numero di controllate pubbliche con Amministratore unico, che non hanno obblighi di parità di genere: le donne che ricoprono la carica di Amministratori sono ugualmente cresciute, ma non certo con lo stesso ritmo, passando da 103 a 193 negli ultimi due anni, cioè dall’8,5% ad appena il 12,6%. I dati territoriali indicano un’ampia variabilità nella presenza di donne nei board delle quotate pubbliche, con quote che vanno dal 36,5% in Umbria al 9,5% in Basilicata. Più in generale, le regioni del Sud, e in particolare Campania, Sicilia, Calabria e Basilicata, sono ancora molto lontane dalla soglia minima, anche se ovunque, tranne Basilicata e Calabria, è aumentata la quota di donne rispetto al 2014.
 



Il ricambio
Nella grande maggioranza delle imprese, dove non ci sono norme specifiche sulla parità di genere, la presenza femminile nei Consigli d’amministrazione cresce lentamente e riflette il ricambio generazionale. La percentuale aumenta nelle società con Amministratore unico (dal 10,8% al 12,7% tra 2012 e 2019) e in quelle che hanno un board collegiale (dal 14,4% al 17,9%), ma rimane ben al di sotto della soglia di un terzo. La presenza di donne tra gli Amministratori cresce al diminuire della fascia di età considerata: 13% tra chi ha più di 55 anni, 18% nella fascia 45-54 anni, 22% in quella 35-44 anni, fino al 27% per gli under 35. Solo nelle imprese di maggiori dimensioni, che partivano da una presenza femminile significativamente più bassa e ora mostrano l’incremento più consistente, le norme sulle società quotate potrebbero aver prodotto effetti indiretti: tra 2008 e 2019, la quota femminile nei CdA è infatti passata dall’8,7% al 16,5% nelle società che fatturano più di 200 milioni di euro. Tuttavia, questo non si è tradotto in un maggior numero di donne che ricoprono il ruolo di AD: appena l’8,4% contro una media del 16,6%.

Solo il 31,5% delle società non quotate ha almeno un terzo di donne nel proprio CdA, percentuale che sale al 33,9% tra le società minori (10-50 milioni) e scende al 27,7% tra quelle con ricavi compresi tra 50 e 200 milioni e al 27,1% tra quelle oltre 200 milioni. Ancora nel 2019, oltre la metà delle aziende con ricavi superiori ai 10 milioni di euro e un CdA di almeno due membri, ha nel board solo uomini.

La legge
Per valutare tutte le ricadute dell’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca, sono stati confrontati gli effetti sulle lavoratrici delle società quotate con quelli relativi alle lavoratrici di un campione gemello di società non quotate, incrociando i dati Cerved con quelli VisitInps. Ne sono risultati due gruppi omogenei di 153 e 149 imprese, molto simili in termini di dimensione, settori di attività e variabili economico-finanziarie. Solo il gruppo delle quotate ha aumentato la percentuale di donne nei Cda, per effetto delle nuove norme. Tuttavia, questo non ha prodotto “effetti a cascata” nelle quotate: a partire dal 2012 si è cominciato a registrare un incremento di donne nelle posizioni manageriali di entrambi i gruppi, pur rimanendo su cifre basse (dal 10 al 13-15% nel 2016). La quota di donne tra gli addetti più pagati risultata in lieve crescita (dal 17% del 2008 al 21% del 2016), ma rimane bassa e non ha fatto registrare scatti nelle aziende con le quote rosa. Anche la presenza femminile tra i dipendenti è aumentata (dal 2008 al 2016, è passata dal 36,2% al 38,6% tra le quotate), ma con un andamento simile si è registrato tra le non quotate. Dunque, le “quote” non hanno favorito la presenza femminile né tra le posizioni apicali delle aziende né tra le occupazioni a più elevato reddito.


«I dati dimostrano che l’applicazione delle norme ha permesso un salto in avanti nella presenza di donne nei board delle quotate e delle controllate che altrimenti non ci sarebbe stato, ma purtroppo non ha ancora promosso cambiamenti profondi nel nostro sistema economico», commenta Andrea Mignanelli, Amministratore Delegato di Cerved. «Sono poche infatti le società quotate andate oltre il minimo imposto dagli obblighi di legge e sono mosche bianche le donne che occupano le posizioni più alte. L’analisi che incrocia i nostri dati con quelli di Inps – prosegue Mignanelli - indica che le quote non sono state sufficienti a riequilibrare la presenza di donne nelle posizioni di vertice e a più alto reddito, né a ridurre i divari salariali», conclude.

La Fondazione
La battaglia è lunga ed è appena iniziata per la Presidente della Fondazione Marisa Bellisario, Lella Golfo.
«La legge che mi onoro di aver portato all’approvazione nel 2012 ha prodotto risultati straordinari, tanto che il Parlamento ha deciso di reiterarla alzando l’asticella al 40% - dice - Detto questo, è certamente il momento di andare oltre e avanti, perché le quote sono solo uno strumento – utile certamente e necessario sicuramente – per raggiungere l’obiettivo di una parità reale e sostanziale a tutti i livelli. Il Rapporto promosso con Cerved, in collaborazione con l’Inps, ha il merito di indicarci quali sono gli ambiti di intervento per far sì che il primato europeo sul fronte delle donne ai vertici, raggiunto grazie alla legge, possa estendersi anche a fronti su cui l’Italia continua a mostrare ritardi consistenti, come l’occupazione femminile e le politiche di welfare»

«Per raggiungere una vera parità di genere nel mondo del lavoro, prescrivere quote rosa o soglie minime di presenza femminile è stato senz'altro utile, ma non risolutivo. Occorre affiancarvi una strategia legislativa e di governo più ampia e coraggiosa, sostenuta da una visione di lungo periodo che tenga conto anche dei profondi cambiamenti in atto», ha affermato il Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, intervenendo alla presentazione del Rapporto.
 

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