Stupro Palermo, resipiscenza: cos'è e perché il più giovane del gruppo è in comunità e non in carcere

Ci sono dei margini rieducativi, è la valutazione del gip, e lo dimostrerebbe il fatto che ha ammesso le proprie colpe

Stupro Palermo, resipiscenza: cos'è e perché il più giovane del gruppo è in comunità e non in carcere
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 23 Agosto 2023, 13:06 - Ultimo aggiornamento: 13:08

Ora ha diciotto anni. Ma lo scorso 7 luglio, quando ha partecipato allo stupro di gruppo di una diciannovenne a Palermo, era ancora minorenne. Ed è l’unico rimesso in libertà dal giudice per le indagini preliminare, che ha disposto per lui il trasferimento in una comunità: ci sono dei margini rieducativi, è la valutazione del gip, e lo dimostrerebbe il fatto che ha ammesso le proprie colpe.

«È incensurato e ha rappresentato una versione dei fatti dalla quale, comunque, emerge un principio di resipiscenza e di rivisitazione critica - sottolinea il giudice - Appare necessario offrire un contenimento diverso da quello che finora ha garantito la famiglia attraverso l’opera di educatori specializzati».

Stupro Palermo, cercano il video della violenza su Telegram: «Chi ce l'ha?». Garante della privacy avverte: «È un reato»

Ravvedimento

È sulla base del concetto di resipiscenza che il giudice ha tratto le sue conclusioni, un principio giuridico che può portare alla scarcerazione di un indagato anche in presenza di un quadro accusatorio ritenuto inequivocabile. Per resipiscenza si intende quel comportamento, del colpevole o presunto colpevole, «volontario ed efficace a impedire o attenuare o eliminare le conseguenze del reato». E il diciottenne in sede di interrogatorio avrebbe appunto mostrato «segnali di resipiscenza», ovvero una manifesta consapevolezza del proprio errore e un ravvedimento. Accade di frequente che un giovane indagato venga collocato in comunità anziché in carcere nonostante l’estrema gravità del reato commesso e ciò suscita ogni volta sentimenti di indignazione nell’opinione pubblica.

Sollevando critiche sull’assenza di pene certe e generando un senso di ingiustizia. E questo, spiegano i giuristi, anche per il concetto sfuggente insito nella resipiscenza.

 

Come sottolinea l’avvocato Annalisa Monaco in un approfondimento sul tema: «Gli interrogativi che si pongono sono molteplici: a quali condizioni e sulla base di quali elementi può il reo essere definito ravveduto? Il ravvedimento deve essere concepito al pari di un religioso pentimento, come uno stato di “redenzione morale”, un’intima emenda, e dunque deve inquadrarsi in una dimensione introspettiva, oppure, deve interpretarsi, in senso più laico, come “riadattamento” della personalità e correzione del comportamento del detenuto, conformemente alle regole dell’ordinamento precedentemente violate?». E soprattutto: «Come può accertarsi con sicurezza un’effettiva e sincera “resipiscenza”?».

Il termine

Il termine resipiscenza ricorre frequentemente nelle inchieste e nelle sentenze e riguarda il rapporto tra indagato (oppure imputato, o condannato) e reato, al percorso di revisione critica del gesto compiuto: se reale e concreto può comportare, come il questo caso, l’attenuazione della misura cautelare o attenuanti in termini di pena. Per il diciottenne di Palermo il gip ha disposto il trasferimento in comunità alla luce di margini rieducativi che sarebbero emersi in sede di interrogatorio. Stando a ciò che trapela dall’inchiesta, sarebbe ritenuto il più violento tra i sette aggressori, la sua linea difensiva consiste nel fatto che la vittima avesse un atteggiamento provocatorio e che sarebbe stata la ragazza a invitarlo ad avere un rapporto consensuale. Tuttavia il giudice ha colto nelle sue parole principi di riflessione critica e di cambiamento, corroborati dalla volontà di collaborare per definire le responsabilità all’interno del gruppo. Decisivo anche il fatto che all’epoca dello stupro avesse 17 anni e nel nostro ordinamento i minorenni godono di particolari tutele anche sotto il profilo penale: la minore età è considerata un’attenuante, poiché funzionale al principio di rieducazione insito nell’eventuale condanna. Il ragazzo, è stata una delle valutazioni del gip, inserito in una comunità può essere seguito da educatori specializzati e recuperato a quei valori che si ritiene la famiglia non sia stata in grado di fornire come modello.

Il ricorso

Da considerare inoltre un altro aspetto. Quella che viene sommariamente definita come scarcerazione è in realtà il collocamento in comunità nell’ambito di un provvedimento di custodia cautelare e non al termine di un processo con sentenza definitiva. Non risponde a principi afflittivi e rieducativi ma viene disposta per evitare l’inquinamento delle prove, la reiterazione del reato o la fuga e secondo il gip la struttura alla quale è stato assegnato il ragazzo non comporta rischi di questo tipo. E al termine del processo al giovane potrà essere comunque comminata una pena detentiva in carcere. La Procura del Minori, in ogni caso, ha impugnato il provvedimento, non avendo colto segni di resipiscenza nelle ammissioni dell’indagato. «Ha raccontato per filo e per segno quello che è successo quella notte. È chiaro che ci sono molte cose che saranno oggetto di approfondimento e in questa fase non sia opportuno rivelare - afferma l’avvocato Pietro Capizzi, difensore del ragazzo - La procuratrice per i minorenni Claudia Caramanna ha annunciato già la presentazione di un ricorso contro il provvedimento del gip, ritenendo che si tratti di fatti particolarmente gravi e dunque il giovane debba stare in carcere». In base al suo racconto, osserva il legale, «ci sono i presupposti per un percorso di recupero, da qui la decisione del gip di attenuare le esigenze cautelari alla luce del racconto che ha ritenuto credibile».

© RIPRODUZIONE RISERVATA