L'intervento / Serve una rete che aiuti le vittime come per la mafia

Una donna su tre nella vita ha subito una forma di violenza. Troppe lasciate sole ad affrontare processi che durano anni

L'intervento / Serve una rete che aiuti le vittime come per la mafia
di Francesco Menditto
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Venerdì 8 Marzo 2024, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 12:59

L’8 marzo non può essere solo una ricorrenza. Ben vengano gli auguri e le mimose, ma a questi gesti deve seguire un impegno quotidiano verso la reale parità, opportunità e tutela per le donne, la metà del genere umano: le nostre amiche, figlie, sorelle, madri, compagne.
Ogni giorno si susseguono tragiche notizie su quotidiani, tv, social: un bollettino di “guerra”, parola che purtroppo, nella sua drammaticità per le guerre in atto, descrive ciò che accade: femminicidi (uccisione di donna in quanto donna), violenze sessuali e di ogni natura ai danni delle donne. Si aggiunge, poi, il sommerso. Ciò che emerge dai dati in modo “devastante” è che 1 donna su 3 ha subito nella vita una qualche forma di violenza, ma solo 1 donna su 10 la denuncia. E la violenza delle donne contro gli uomini? Rispondono i dati, per le violenze sessuali le donne ne sono vittime nel 93%, nei maltrattamenti nell’83%, nello stalking nel 75%. E gli autori sono quasi esclusivamente uomini. Per chi opera nel giudiziario, i segnali sono ancora più allarmanti perché la violenza si vede, si respira negli sguardi delle vittime e nei segni sul loro corpo. Perché con un fenomeno criminale di questa natura ed entità siamo in affanno? Le leggi ci sono, spesso persino approvate all’unanimità. Abbiamo Forze di Polizia e magistratura tra le più competenti e preparate a livello internazionale. Cosa non funziona?
Non abbiamo una formazione approfondita, soprattutto sulle radici culturali di una violenza che si fonda sulla evidente discriminazione che è in ogni ambito della società, oltre che dentro le nostre famiglie quando, ad esempio, non consentiamo che le nostre figlie abbiano le stesse libertà dei nostri figli (“stai attenta”, “non tornare tardi”), quando le donne rinunciano alle loro occasioni professionali per lasciare spazio al marito che lo ritiene dovuto, e tante altre. Sono abitudini introiettati da millenni, che non hanno nulla di “normale”, tanto che alle donne sono state precluse professioni e mestieri a lungo (solo nel 1965 abbiamo la prima magistrata) e hanno conquistato il diritto al voto solo nel 1946. Le leggi da sole non bastano. Occorre lavorare a tutti i livelli sulla formazione e sulla conoscenza; occorre rendere potenzialmente tutti e tutte capaci di riconoscere la violenza perché il contesto culturale tende a normalizzarla e a non volerla vedere. Vi sono pensieri diffusi che giustificano comunque gli autori ed inquinano anche le vicende giudiziarie: era solo una lite familiare, lui era nervoso per il lavoro perso, le donne denunciano strumentalmente, subiscono perché attratte da un amore malato. Tutti esempi che emergono dagli atti giudiziari. C’è bisogno di un cambio di passo per evitare che l’Italia sia ancora condannata dalla Corte europea perché incapace di tutelare le donne (e i loro figli) e perché utilizza pregiudizi giudiziari. Il processo è solo lo specchio della società.
Ma nel tempo non breve del cambio culturale, bisogna contrastare un’identità dell’uomo fondata su autorità e possesso, e passare al rispetto della donna. Le istituzioni devono creare una rete sul territorio, come già in alcuni luoghi accade, che intercetti e segnali le violenze, accelerando gli interventi a tutela delle donne, affiancandole nel percorso di uscita dalla violenza. Ma non a parole. Occorre un’unità analoga a quella che ha consentito di contrastare le mafie, con la società civile in prima linea, perché la violenza ai danni delle donne ha caratteri simili: omertà, sopruso, inquinamento ambientale. Le forze dell’ordine e le Procure sono in prima linea, pur ancora con alcuni limiti, per tutelare con rapidità le vittime, purtroppo a risorse invariate e inadeguate; le fasi successive, di cui il legislatore non si occupa, vedono le donne spesso sole ad affrontare processi che durano anni e per questo, perdono fiducia nelle istituzioni e ridimensionano e ritrattano: una sconfitta per tutti. Infine, ciascuno deve fare la propria parte, soprattutto non voltarsi mai dall’altra parte e prendere parola, sempre. 
*Procuratore di Tivoli
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