Partiti alla prova/ Quel sottile confine tra demagogia e populismo

di Luca Ricolfi
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Sabato 13 Gennaio 2018, 00:21
Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo? Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, non sbaglia un congiuntivo, e soprattutto non offende nessuno. C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. 

La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue? Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo. In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per batterlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge dei fiumi di demagogia che affliggono anche la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservino uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale. 

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. 

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa parte del Paese, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo dell’Italia.

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