Le sfide nazionali/È solo pallone, concentriamoci sulle partite vere

di Alessandro Campi
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Martedì 14 Novembre 2017, 23:55
Viene da chiedersi quale Paese meraviglioso sarebbe l’Italia se i suoi abitanti riservassero all’impegno civile, al lavoro quotidiano, ai rapporti sociali e alla tutela della cosa pubblica un decimo delle passioni, delle fatiche mentali, delle energie fisiche, della creatività, del tempo e delle parole che dedicano al calcio, ovviamente più guardato da seduti che giocato.

S’è visto anche questa volta di cosa siamo capaci, con la nazionale che non è riuscita a qualificarsi per i mondiali del 2008 in Russia avendo affrontato degli avversari (gli svedesi) nel complesso assai modesti e certo non all’altezza della nostra fama calcistica. Dacché l’arbitro ha fischiato il termine dell’incontro, certificando così la nostra sconfitta ma soprattutto la nostra oggettiva debolezza atletica, s’è scatenato un diluvio di commenti, denunce, accuse, proteste e prese di posizione, al limite dello psicodramma collettivo. Un’intera nazione s’è sentita in dovere di dire la sua. Si sono richieste perentoriamente le dimissioni dei responsabili, che poi da copione sarebbe soprattutto uno, cioè il selezionatore tecnico.

S’è fatta la conta all’ingrosso dei terribili danni economici che dovremo sopportare per questa eliminazione. Si sono rievocate le altre pagine nere della storia nazionale (è bello fresco e dunque è tornato comodo l’anniversario di Caporetto) per trovare un possibile paragone a questa disfatta sul campo. Ci si è improvvisamente scoperti – noi italiani, i più refrattari ad esprimere un qualche senso di appartenenza condivisa – come una comunità lacerata, ferita, offesa, che adesso si aspetta chissà quale riscatto. Sono volate parole come catastrofe, tragedia, disastro, apocalisse, che impiegate con tanta leggerezza e mancanza di senso della misura, visto che parliamo pur sempre d’un gioco, pongono il problema di quali altri termini utilizzeremo quando si tratterà di indicare o descrivere un cataclisma vero.

Soprattutto s’è fatta tanta sociologia e tanta psicologia delle masse. Va da sé, con toni e contenuti da bar sport. Dove sta scritto, ad esempio, che il calcio sia la metafora della società? E dunque che una nazionale in crisi sia il prodotto conseguente e inevitabile di una nazione in crisi? Perché se così fosse se ne dovrebbe dedurre la tesi – francamente ridicola, per quanto creduta e reiterata in queste ore – che la forza in campo calcistico di un Paese sia ciò che ne determina anche la potenza economica e la credibilità internazionale. Buon senso vorrebbe che fosse semmai il contrario. E si potrebbero comunque citare almeno una decina di Stati al mondo che sono calcisticamente delle nullità pur possedendo grandi ricchezze e un loro riconosciuto ruolo globale. Ci si vuole forse convincere che essendo fuori dal mondiale di calcio adesso non conteremo più nulla nei consessi internazionali e che il nostro Pil andrà a picco? 

<HS9>L’impressione è che questo supposto parallelismo tra Sport e Politica, tra i successi del primo e la forza della seconda, sia più che altro un retaggio inconscio della tradizione totalitaria novecentesca, nella quale i due ambiti erano in effetti strettamente e strumentalmente intrecciati. Ma la credibilità e il buon funzionamento di una democrazia, dove lo sport deve essere considerato uno svago di massa, non uno strumento coercitivo di mobilitazione, un mezzo di affinamento fisico della stirpe o un modo per far dimenticare al popolo le brutture del potere e la mancanza di libertà, non possono dipendere dai goal fatti e dalle coppe vinte. 
<HS9>Se la si smettesse di fare filosofia della storia su una sconfitta calcistica – che tutti peraltro hanno visto essere stata ampiamente meritata sul piano sportivo – forse si scoprirebbe, assai banalmente, che ciò che è mancato è stato quel minimo di buona programmazione e di solida organizzazione senza il quale niente nel mondo odierno funziona. Abbiamo semplicemente messo le persone sbagliate nel posto sbagliato. Ovvero è possibile che le persone forse persino giuste abbiano operato male, fallendo i conti, le strategie, la pianificazione, i calcoli e le proiezioni. Può capitare. Ma quando questo accade in un’azienda – e la macchina calcistica, al netto delle passioni sincere che l’alimentano, questo ormai è: una colossale intrapresa commercial-spettacolare, intorno alla quale ruotano interessi, investimenti e fatturati milionari, compreso qualche intrallazzo – si corre ai ripari. Cercando di scegliere, nella prospettiva di un futuro migliore, le energie anch’esse migliori. Sarà prosaico come approccio, ma è l’unico razionale e serio. 
Il resto sono chiacchiere magari divertenti, ma insopportabili; oppure maschere che gli italiani si divertono a indossare per nascondere le loro autentiche magagne o il loro vero (e spesso pessimo) modo di essere. Come appunto questo scoprirsi nazionalisti, cantori accorati dell’inno patrio, estremi difensori del tricolore, orgogliosi depositari di una storia nazionale prestigiosa, giusto però per i novanta minuti che dura la partita. Salvo tornare a dividersi, a sentirsi estranei rispetto al prossimo o al vicino, a chiudersi nel proprio bozzolo paesano o individualistico, a vomitare stereotipi anti-italiani e auto-denigratori non appena la squadra rientra nello spogliatoio. È davvero un popolo stanco o confuso quello che pensa di ritrovare sé stesso come realtà unitaria e solidale intorno ad un pallone che rotola. Sino a diventare realmente patetico quando trasforma una partita perduta in un crollo epocale dal quale – chissà, forse, speriamo, siamo pur sempre italiani, ne abbiamo viste tante e abbiamo così tante risorse segrete – un giorno lontano ci riprenderemo. Per non affondare nel ridicolo bisognerebbe riscoprire la sobrietà dei nostri padri, ai quali il gioco del pallone piaceva eccome, ma senza che lo considerassero un affare di Stato. Quando nel gennaio 1958 perdemmo malamente con l’Irlanda del Nord sulla Gazzetta dello Sport apparve questo semplice titolo: “Eliminati gli azzurri dalla Coppa del mondo”. Tutto qua, invece degli strilli odierni. Ma erano altri tempi, erano altri italiani.
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