Roma, i dormitori a cielo aperto conosciuti e mai rimossi

Roma, i dormitori a cielo aperto conosciuti e mai rimossi
di Mario Ajello
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Mercoledì 20 Settembre 2017, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 21 Settembre, 08:52

Roma è il dormitorio dei fantasmi. Si aggirano di notte, sono i senza tetto e i senza dimora, le anime perse di una città che non sa gestirle e non sa né accoglierle né cacciarle. E l’Accampamento Capitale si distende ovunque, come giungla e favelas. Le banchine del Tevere sono una distesa di cartoni e materassi laceri, di coperte e stoviglie sporche, di mutande stese sui fili ad asciugare e gli ultimi le rubano ai penultimi o viceversa, in una guerra civile tra derelitti indegna della maestà di Roma ridotta ad albergo dei poveri che si diffonde a macchia d’olio (santo?). Due cani grossi e arrabbiati, sotto il ponte Amedeo di Savoia, al Santo Spirito, lì dove passeggia Jep Gambardella nel film di Sorrentino e si bea di «questi costanti sprazzi di bellezza» (ma costanti evidentemente non sono), presidiano una tendopoli lacera di slavi e napoletani e chi prova ad avventurarsi in questo pezzo di città corre il pericolo di venire sbranato all’ombra del Cupolone. Le masse di disperati che vagano nella notte, come quelle dei tempi medioevali, hanno paura, talvolta. Mettono paura, spesso. Quasi non c’è angolo che non sia un ricovero da sotto-mondo: da Piazza Mancini a Piazza Vittorio, da villa Celimontana alle aiuole di Piazza Bologna, da Colle Oppio a Monte Antenne. E il colonnato di Bernini? 

ARTE POVERA
Qui il barocco è diventato un campo di sfollati. E un napoletano che dorme con la sua famiglia a due passi, sotto il Ponte Sant’Angelo in mezzo agli sposini che si fanno le foto nuziali (la scena è di ieri pomeriggio) con in cornice gli zingari o i clochard, ogni tanto sale verso San Pietro e così racconta lui, Raffaele, 48 anni di cui 23 passati in carcere per omicidio: «Capita che qualcuno ci dia un panino, e poi scappa». E se non scappa, può rischiare. A piazza dei Cinquecento, l’altra sera, parte una zuffa sotto l’orrida statua di Papa Wojtyla, quasi che il mantello spalancato del pontefice possa fungere da lenzuolo, per conquistarsi qualche metro dove dormire. Sono slavi, italiani, africani. Vola qualche bottigliata come spesso accade in questi contesti e in questa città che si volta da un’altra parte, che non sa più come pretendere sicurezza, che sembra rassegnata ma cova rabbia. I tre si stanno ancora accapigliando per lo spazietto della notte, scene simili si staranno svolgendo in decine o centinaia di altri posti, e il tutto racconta tra l’altro il fallimento del multiculturalismo anche nella sua versione più stracciona. E ha ragione Regis Debray, che è uomo di sinistra, il quale spiega che a tenere culture diverse troppo vicine - senza tetto né legge - si finisce per fare come due polsi sfregati l’uno contro l’altro: a lungo andare si crea l’eczema. 

I PILONI LATRINE
L’Accampamento Capitale è un eczema gigantesco. Non c’è Caritas che tenga in tutta la zona della stazione Termini. Nel sottopasso davanti all’Hotel NH, al Pinciano, c’è una sorta di buco nero in cui dormono a turno una cinquantina di persone tra miasmi e fetori. «Vai via!», grida un tizio in canotta a chi va a curiosare quasi all’ora di cena. Gli altri restano accasciati sui pagliericci. Qui sotto sono un’umanità derelitta che sembra innocua nella sua disperazione ma se emergono, vagando nella zona di Villa Borghese, contribuiscono - come si sa - a rendere Roma quella che è. Un posto di cui non ci si può fidare. Le sterpaglie di fronte alla nuova stazione Tiburtina sono un rigurgito di primitivismo in cui i rami degli alberi marci fungono da appendiabiti, i piloni della tangenziale sono latrine, e il viadotto serve a riparare dalla pioggia ma non dalle ortiche e dai topi. E’ uno dei luoghi più ambiti per i vagabondi della notte e la notte d’inverno comincia alle diciassette, quando ancora i romani sono in giro e incappare in un accampamento per loro è un’inquietudine che andrebbe capita, rispettata, risolta. E invece, no. 

Il Papa fa il Papa, dice «non rassegnamoci mai alle persone scartate». Ma quello a cui non bisogna abituarsi è la convivenza forzata con forme di vita primordiali che una capitale del mondo, una vetrina di cultura non può tollerare voltandosi dall’altra parte o scappando o rifugiandosi in un umanitarismo sterile se non prende soluzioni pratiche e rigorose nell’affrontare l’accampamento continuo. Uno slavo, che dice di chiamarsi Claudio e vive tra i punkabbestia che hanno requisito la zona sotto ponte Duca D’Aosta - quello del Foro Italico - racconta: «Qui i negri possono stare solo se pagano. Se non pagano, li spediamo all’inferno». Ma è l’inferno che è arrivato da noi. 
 

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