Aung San Suu Kyi non andrà all'Onu a parlare del Myanmar

Aung San Suu Kyi non andrà all'Onu a parlare del Myanmar
di Anna Guaita
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Mercoledì 13 Settembre 2017, 19:48 - Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 16:40

NEW YORK – Doveva essere la speaker più importante ed ascoltata, ma ha annunciato che non si farà vedere. Aung San Suu Kyi, la leader di Myanmar, che per decenni è stata l’idolo dei movimenti dei diritti umani e non violenti, ha fatto sapere che non verrà a New York per l’inaugurazione dell’Assemblea Generale dell’Onu, martedì, e neanche per la speciale riunione del Consiglio di Sicurezza il giorno dopo.

Il Consiglio si riunisce proprio per discutere di Myanmar e della drammatica crisi della minoranza dei Rohingya. La signora, che è di fatto la leader del Paese, oltre a esserne Ministro degli Esteri, è stata criticata da più parti per non aver preso posizione su quello che il direttore della Commissione Diritti Umani dell'Onu due giorni fa ha definito “un classico esempio di pulizia etnica”. Alle parole di condanna di Zeid Raad al-Hussein, l'ambasciatore giordano noto per essere uno dei fondatori del tribunale dei crimini di guerra dell'Aia, si sono aggiunte ora anche le parole  del Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres che ha descritto la situazione come “catastrofica”. Guterres ha esplicitamente fatto appello alle forze armate di Myanmar, chiedendo loro di smettere le operazioni militari contro i civili Rohingya e i loro villaggi.

Aung San Suu Kyi avrebbe dovuto essere al centro della riunione del Consiglio di Sicurezza, martedì, e riferire sulle persecuzioni che i militari stanno effettuando contro la minoranza musulmana. La signora ha fatto sapere che non si allontanerà dal suo Paese e che invece parlerà alla nazione martedì, invocando “la riconciliazione e la pace”.

Quasi 380 mila membri della minoranza sono fuggiti in questi ultimi giorni davanti agli attacchi delle forze armate, cercando rifugio verso nord, nel Bangladesh. Nell’attraversare il fiume che fa da confine, il Naf, molti muoiono annegati, soprattutto donne e bambini, altri arrivano stremati oltre il confine, ma non trovano più spazio nei rifugi organizzati dall’Onu e si accampano lungo le strade. L’organizzazione "Medici Senza Frontiere" ha denunciato che i profughi arrivano in condizioni di salute spesso disperate, con ferite e infezioni gravi.

I rohingya sono stati definiti nel passato dalle Nazioni Unite come la “minoranza più perseguitata del mondo”. Sono in massima parte musulmani, ma fra loro ci sono anche molti hindu. Non hanno neanche la cittadinanza a Myanmar, il Paese in cui vivono, perché sono considerati immigrati illegali, nonostante si trovino nella regione di Rakhine, lungo la costa, da generazioni.

Periodicamente sono stati oggetto di persecuzione anche violenta. L’ex segretario delle Nazioni Unite, Khofi Annan, ha più volte espresso il timore che la repressione a cui la minoranza è soggetta sarebbe prima o poi sfogata in una ribellione. E infatti quest’ultima crisi è stata scatenata dopo che un gruppo armato di militanti rohingya – la Arakan Rohingya Salvation Army - ha attaccato varie sedi della polizia. La vendetta delle autorità è stata durissima, e si è scatenata anche contro i civili, con una violenza e una crudeltà che hanno fatto indignare buona parte dell’opinione mondiale.

E una parte dell’indignazione si rivolge proprio contro Aung San Suu Kyi. Lei, che nel 1991 vinse il Nobel per la pace per la sua resistenza contro la dittatura militare, non ha espresso nessuna critica sul comportamento dei militari. Molti hanno tentato di spiegare il perché di questo silenzio. Nei giorni scorsi fonti a lei vicine hanno fatto capire che la sua preoccupazione è che il Paese è in una fase di passaggio delicatissima, in cui i militari – attaccati e criticati - potrebbero interrompere il processo di democratizzazione e riprendere il potere in mano. Il suo silenzio sarebbe dunque necessario per evitare un crisi ancora più grande.


Ma intanto figure di primo piano mondiali, come il Dalai Lama, nonché l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu e la giovane Malala Yousafzai, anch'essi Nobel per la pace, hanno scritto alla signora per supplicarla di intervenire. E c’è che propone di punirla per il suo silenzio togliendole il Nobel.

 

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