La lingua e l’identità/ Tolleranza sottozero per i nemici dell’italiano

di Marina Valensise
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Venerdì 17 Febbraio 2017, 00:06
Attenzione, pericolo. Se continuiamo così, finiremo per comunicare a gesti, o peggio. Le parole sono una cosa seria. Aggettivi, verbi, pronomi, avverbi contano eccome. L’ordine del discorso, non ne parliamo. Con la sintassi e l’analisi logica non si scherza. Non possiamo scherzare. Fondano l’ordine del reale e soprattutto, piccolo particolare non trascurabile, fondano la nostra capacità di mettere in ordine il reale.
Inutile dire che scrivere ormai è superato e non serve più, e scrivere bene è diventato un optional nel mondo d’oggi, dominato dai tweet, dagli sms, dal flusso ininterrotto delle faccine che piangono e ridono. Le parole contano eccome, e il linguaggio, la persuasione e la retorica non possono prescindere dall’arte del discorso. Perciò sono da compatire, e non solo da condannare, quegli atteggiamenti equivoci e sventati come l’indulgenza o peggio ancora l’indifferenza nei confronti della parola scritta e della capacità di scrivere, che purtroppo pare stia diventando merce rara fra i giovani d’oggi. 
Seicento professori hanno firmato un accorato appello per lanciare l’allarme sull’analfabetismo di massa che affligge le giovani generazioni. Si parla di percentuali spropositate di italiani incapaci di riferire un discorso, riassumere un testo, comprendere la struttura di un periodo ipotattico. Non parliamo delle percentuali derisorie dei lettori di libri…


Pochi giorni dopo, un docente universitario, forse in vena di autocommiserazione, ha confessato la sua colpa in un articolo scritto per il giornale della Confidustria in cui racconta come abbia promosso col minimo dei voti uno studente del quinto anno di Lettere, quantunque fosse palesemente incapace di sintetizzare un testo, usare correttamente la punteggiatura, servirsi senza errori delle preposizioni di uso corrente. Il povero sventurato era stato già bocciato tre volte.

Alla quarta volta, l’ha scampata. Il professore reo confesso l’ha promosso, «perché bocciarlo ancora avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via cinque anni di studi, rovinargli l’esistenza». E pazienza se l’asino graziato di oggi sarà il professore incapace dei nostri figli domani…

 
La giustificazione di tipo umanitario-esistenziale non è una provocazione: è un’ammissione sconfortante del lassismo delle nostre classi dirigenti e dello stato comatoso in cui versa l’università italiana e il suo corpo docente. Effetto collaterale dell’autodenigrazione permanente, diventata uno sport nazionale, tanto che i cacciatori di testa ormai reclutano consigliando l’espatrio. Il povero studente - confessa il professore che si autoaccusa - si sta laureando in storia contemporanea, e non è per niente sciocco: è un ragazzo intelligente (pensate se era scemo) e dunque il prof non se l’è sentita di bocciarlo un’ennesima volta e gli ha regalato un diciotto. 
Ora, se si tratta di inseguire l’indulgenza del lettore nei confronti di un mestiere delicato e screditato come quello del docente universitario, lo sfogo è comprensibile. Se però l’obiettivo è un altro, e mira cioè a giustificare il lassismo, l’impotenza, la resa incondizionata, la totale abdicazione nei confronti delle regole elementari e della severità con cui le regole elementari vanno non solo difese, ma imposte e rispettate, non c’è santo che tenga. E c’è pochissimo da ridere. 
La situazione è grave ed è bene denunciarla. L’Italia è un Paese abitato da sessanta milioni di persone. L’italiano è una lingua viva, elastica, duttile, magnifica, ma se la consideriamo sul piano mondiale oggi è parlata da un’esigua minoranza di persone, anche se le statistiche confermano che in ogni parte del mondo cresce l’interesse per l’apprendimento dell’italiano, che figura addirittura al quarto posto nella classifica delle lingue straniere più studiate al giorno d’oggi. 
L’italiano, infatti, è una lingua simpatica. È una lingua che non si impone, non conquista, ma seduce e attrae quasi naturalmente per la forza della sua musicalità, per la gloria della sua tradizione, per la ricchezza della cultura: è la lingua dell’amore, della poesia, dell’arte, dell’architettura, della musica, dell’opera lirica, e solo chi l’ignora la può sottovalutare.
Altra ragione per non scherzare con la capacità di insegnarla, e di impararla bene, il che vuol dire imparare a leggerla e a scriverla con agio e correttezza. Perciò, se non vogliamo condannarci al suicidio collettivo o auto votarci alla perfetta irrilevanza - come quei genitori smaniosi che mandano i figli a studiare all’estero e finiscono per ritrovarsi dei dissociati, incapaci di scrivere una mail senza corredarla di almeno otto errori di ortografia, cerchiamo di fare un piccolo sforzo.
Se la lingua è un bene inestimabile e una risorsa civile da maneggiare con cura, l’italiano è una materia delicata da trattare con amore e attenzione. Dunque, tolleranza zero per chi non vuole più studiarla, e sottozero per chi è incapace di insegnarla.
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