Potente, spiazzante, piena di invenzioni, sarcastica e profonda, la serie di Sorrentino ha portato il linguaggio del miglior cinema d’autore nella televisione e al tempo stesso ha permesso alla televisione di fare un grande salto di qualità.
Sono rimasta incollata allo schermo e una volta finita la decima puntata (con l’ultima, clamorosa sorpresa) mi sono sentita “orfana” proprio come il protagonista, l’immaginario papa americano ossessionato dal trauma della sua infanzia, cioè il fatto di essere stato abbandonato dai genitori.
Mi mancano i dialoghi apparentemente stralunati ma in realtà molto profondi, le luci solenni e misteriose di Luca Bigazzi, gli attori uno più bravo dell’altro (Silvio Orlando su tutti), le mille invenzioni di Sorrentino che ci ha regalato un papa felice di cambiare i pannolini a un neonato, intento a stendere il bucato, bravo a giocare a biliardo e tante altre cose ancora.
Mentre gli studios hollywoodiani si ostinano a sfornare film per ragazzini a base di supereroi, la lunga serialità si conferma sempre più la nuova frontiera del cinema d’autore e contribuisce a tenere in circolo creatività, risorse, talenti. E garantisce agli autori quella libertà che forse, al di fuori della tv, non avrebbero.
Alla luce del successo internazionale delle prime dieci puntate, Sorrentino ha promesso la seconda stagione di “The Young Pope”. Mi auguro che faccia presto a scriverla, non vogliamo rimanere “orfani” troppo a lungo.
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