Trump: «Via 2-3 milioni di clandestini. Costruiremo il muro con il Messico»

Trump: «Via 2-3 milioni di clandestini. Costruiremo il muro con il Messico»
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Domenica 13 Novembre 2016, 18:02 - Ultimo aggiornamento: 14 Novembre, 10:01

Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha confermato in una intervista alla tv americana Cbs che intende costruire il muro al confine col Messico, precisando che una parte potrebbe essere muro e una parte una «recinzione», in accordo con quanto proposto dai repubblicani al Congresso.

Trump ha poi ribadito un'altra delle sue promesse elettorali, l'epulsione di 2-3 milioni di clandestini con precedenti penali. «Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga», ha detto, indicando la cifra in due, forse anche tre milioni. Quanto agli altri irregolari, il neo presidente eletto ha sostenuto che una decisione verrà presa dopo aver reso sicura la frontiera.

Le dichiarazioni di Trump sono arrivate mentre non accenna a placarsi l'ondata di proteste contro la sua elezione alla Casa Bianca. Altre marce sotto lo slogan 'Not my president' si sono svolte oggi per il quinto giorno consecutivo dopo quelle che hanno percorso ieri l'America metropolitana, da New York a Los Angeles, con una ventina di arresti a Portland ed altri sette a Las Vegas.

A far aumentare la tensione potrebbe essere l'intenzione del presidente eletto di fare un tour della vittoria negli Stati che lo hanno eletto, come ha ventilato il suo staff, che sta già lavorando al programma. Ma anche il suo impegno a costruire il muro al confine col Messico e ad espellere subito due-tre milioni di clandestini con precedenti penali. Dichiarazioni forti, ma che per alcuni potrebbero anche celare un possibile compromesso. Il tycoon ha infatti precisato che in alcune aree non ci sarà muro ma recinzione, come proposto al Congresso dai Repubblicani, che stanno cercando una mediazione su vari temi. E se promette di usare il pugno di ferro con 2-3 milioni di clandestini dalla fedina penale sporca, espellendo o incarcerando «i membri delle gang e i trafficanti di droga», Trump si riserva di prendere una decisione sugli altri irregolari, che sono la maggioranza (circa dieci milioni), solo dopo aver messo in sicurezza la frontiera.

Ma sono distinzioni che poco contano agli occhi dei manifestanti, convinti che le politiche del neo presidente mineranno i diritti civili, in particolare quelli delle minoranze etniche, sessuali e religiose, metteranno a rischio il sistema sanitario e ignoreranno i cambiamenti climatici. Gli episodi di intimidazione e intolleranza si stanno moltiplicando nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, come se l'elezione di Trump avesse sdoganato un odio a lungo latente nella società. L'organizzazione americana per la difesa dei diritti civili ha già registrato sul suo sito oltre 200 incidenti a carattere razzista dopo il voto.

Lo speaker della Camera, Paul Ryan, nel frattempo ha cercato di gettare acqua sul fuoco, condannando gli autori dei graffiti e delle aggressioni razziste («non sono repubblicani, non li vogliamo nel nostro partito»). Ma il Paese resta profondamente diviso e la maggioranza degli elettori democratici (circa 60 milioni in tutto), secondo alcuni sondaggi, si rifiuta di riconoscere la vittoria di Trump, aggrappandosi anche al fatto che Hillary Clinton lo ha superato nel voto popolare.

Mai l'America si era trovata di fronte ad un presidente così contestato. Per rintracciare precedenti di analoghe proteste su larga scala gli storici si sono spinti sino all'elezione nel 1860 di Abraham Lincoln, che ottenne solo il 40% circa del voto popolare e non era neanche nelle schede in alcuni Stati del Sud. La manifestazione più imponente si è svolta ieri a New York, sino alla Trump Tower, dove il tycoon è rimasto asserragliato nel weekend pianificando le prossime mosse ma trovando il tempo di ricevere Nigel Farage, leader del partito eurofobico Ukip. Le altre grandi città che guidano la protesta sono Los Angeles e Chicago, ma cortei pacifici hanno invaso anche altre località di periferia. Portland resta il teatro più a rischio: anche ieri sera, nonostante gli appelli del sindaco alla calma, ci sono stati scontri con la polizia, che ha arrestato una ventina di persone.

Gli organizzatori delle marce promettono di proseguire ad oltranza, almeno sino all'insediamento di Trump, il 20 gennaio. Anzi, sino al giorno dopo, quando a Washington è prevista una marcia delle donne. Ma il movimento sta promuovendo anche altre forme di resistenza: spille da balia da indossare come segno di solidarietà verso le minoranze, post-it colorati nella metro di Ny su proposta dell'artista Matthew Chavez, iniziative legali per sfidare il Congresso a maggioranza repubblicana e i tribunali su eventuali politiche che ledano i diritti civili.

Intanto in questi primi giorni da presidente eletto, Trump è alle prese con un dilemma nella formazione della sua futura squadra di governo: mantenere la linea anti-establishment che lo ha portato al trionfo puntando su fedelissimi e outsider o arrivare al compromesso con il partito repubblicano? Per il tycoon la scelta appare per molti versi obbligata perché è il Grand Old party, con la sua maggioranza alla Camera e al Senato, ad avere in tasca le chiavi per realizzare molte delle riforme promesse. E l'arma per poterlo eventualmente disarcionare, sostituendolo con il più fidato vice Mike Pence (già promosso a capo del transition team): l'impeachment.

Per ora Trump ha riempito la sua squadra per la transizione con figli, parenti e lobbisti vicini ai repubblicani. Le nomine di governo saranno una cartina tornasole. Una prima indicazione però è già arrivata in serata con la selezione del 'chief of staff' della Casa Bianca, considerato spesso il secondo incarico di maggiore potere a Washington. La scelta, che irriterà molti degli elettori che hanno votato il magnate contro l'establishment, è caduta su un insider di Washington: Reince Priebus, presidente del partito repubblicano, che lo ha sostenuto lealmente e ha cercato di fare da ponte tra Trump e i dirigenti Gop, a partire dallo speaker della Camera Paul Ryan.

Priebus ha avuto la meglio su Stephen Bannon, presidente della campagna elettorale del tycoon, un ex di Goldman Sachs ma soprattutto padre padrone del sito conservatore di destra (a sfondo razzista) Breitbarb News e figura anti establishment: è stato ricompensato con la nomina a chief strategist e consigliere 'anzianò. Altre caselle chiave per capire in che direzione si muove il presidente eletto sono quelle del segretario di Stato, alla Difesa e al Tesoro. E del consigliere per la Sicurezza nazionale, carica che sembra contesa tra il generale Michael Flynn, un generale dell'intelligence in pensione che è stato il più stretto consigliere di politica estera di Trump, e 'l'interventistà Stephen Hadley, che ha ricoperto il ruolo con Bush e che è in lizza anche per il Pentagono. Chi sceglierà Trump? Un fedelissimo o una figura chiave dell'establishment repubblicano in politica estera?

Stesso ragionamento vale per gli altri posti dell'amministrazione, con toto-nomi che alternano figure vicine a Trump provenienti dal mondo privato a politici repubblicani con incarichi istituzionali. In questa fase delicata si inseriscono le pressioni spesso contrapposte di almeno tre gruppi. Il primo è quello del 'clan' famigliare (Donald Jr, Eric, Ivanka e il marito di quest'ultima, Jared Kushner ). Il secondo è quello dei fedelissimi della prima ora, che vorrebbero una resa dei conti con chi nel partito repubblicano non ha sostenuto la candidatura di Trump. Il terzo è quello del Grand Old Party, con Priebus e Pence grandi mediatori. Trump, che non ha nessuna esperienza di governo, dovrà trovare la quadratura del cerchio per accontentare tutti e garantirsi il disco verde al Congresso, senza però annacquare troppo le sue promesse.

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