La neopolitica modello Trump, così diversa dai populisti del no

La neopolitica modello Trump, così diversa dai populisti del no
di Mario Ajello
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Giovedì 10 Novembre 2016, 08:41 - Ultimo aggiornamento: 16:40

Michael Moore, il celebrato regista, aveva vaticinato: «Molti giovani elettori voteranno Trump e lo faranno vincere non perché siano d'accordo con lui ma solo perché manderebbe tutto all'aria e farebbe arrabbiare mamma e papà». Insomma, il voto a dispetto, di protesta, di pancia, di populismo e d'ignoranza. Eppure non è stato affatto così, perché la scelta dei cittadini è sempre consapevole anche se certo establishment non vuole accorgersene (si veda il caso Brexit) e la lettura stereotipata e più andante delle elezioni americane appare una lettura di comodo. O almeno pigra. Così come non regge del tutto il paragone automatico tra il trionfo di Trump e l'affermazione del «leave» nel referendum inglese e tra The Donald e i personaggi del populismo europeo, dalla Le Pen a Orban, da Grillo a Farage e così via.

LE DUE SPONDE
La differenza rispetto ai neo-politici del Vecchio Continente è che Trump è un imprenditore e un imprenditore intriso di pragmatismo americano. E non ha fatto altro in questi anni che risultare culturalmente in contrasto con quello che è il pilastro ideologico dei populismi europei: il no. «Quando uno deve decidere deve dire di sì», è la base del suo approccio e da comandante in capo saranno più i sì che i no quelli che dovrà pronunciare, smentendo la sua immagine propagandistica di spaccatutto. «Se vuoi avere successo devi abituarti a sentire spesso la parola no e a ignorarla!», è un altro caposaldo del trumpismo.

Riuscirà il Camaleonte Donald, che già sta smorzando i suoi ardori, a trumpizzare anche il populismo europeo? «Lui, il Pannocchia, diventerà un moderato, vedrete», è la previsione di Grillo. Quel che è certo è che The Donald appartiene all'onda lunga della contemporaneità, deve il suo successo come i suoi simili europei all'insistenza sulle frontiere chiuse, sulla difesa dei cittadini prima di tutto, sul bisogno di comunità, sulla polemica contro le élites incapaci e autoreferenziali, sull'America First, sulla retorica del «forgotten man» (dell'uomo, specie l'uomo bianco, dimenticato) nel mainstream del politicamente corretto e del multiculturalismo come credo ideologico dell'intero Occidente. Ma è anche un particolarissimo ircocervo il Ciuffone: con la testa di Orban, tratti di Farage o di Grillo anche se Beppe lo nega («Ma che c'entro io con lui?») a cui si aggiunge però una parentela paleo-con che lo avvicina a Reagan fatta di varie componenti.

Una delle quali salta all'occhio immediatamente. Trump può essere ascritto pienamente in quel filone dell'anti-intellettualismo americano di cui Ronald fu esponente e Donald non ne parliamo, e che oggi come ieri si è rivelato vincente in una corsa elettorale. Reagan, l'attore di serie B ignorante del mondo e «babbeo», è stato poi considerato da presidente, e così viene ricordato oggi, uno dei più grandi della storia americana. Non fosse altro che per avere aperto la strada alla vittoria degli Stati Uniti nella Guerra Fredda e per avere inaugurato una lunga fase di espansione dell'economia nazionale, non importa se per merito delle sue ricette economiche (Reaganomics) o meno. Chissà se prima o poi, giocando con le parole, si arriverà a dire: il suo nome è Trump, Ronald Trump.

LA DERIVA
E che dire dell'idea - dei sinistresi distratti pronti a vedere dietro ogni cosa come anche nel referendum italiano l'inizio di una «deriva autoritaria» - che un tipo così estremo come il tycoon diventato presidente darà una pulsione totalitaria alla patria del pluralismo da sempre ammirata da tutti fin dai tempi della «Democrazia in America» di Alexis de Tocqueville e anche da prima? In quel grande Paese giusto a livello macchiettistico, e Trump ha dimostrato di non essere una macchietta, esistono i totalitari, del tipo di quelli del film «Blues Brothers» in cui lo strepitoso John Belushi dice a Dan Aykroyd vedendo degli idioti mascherati da SS: «Io odio i nazisti dell'Illinois».

E li butta in acqua. Ecco la differenza anche storica tra Trump e Orban: nella patria di quest'ultimo il totalitarismo fascista e soprattutto quello comunista sono stati di casa, certe ascendenze contano, anche se certe equiparazioni tra populismo e anti-democrazia sono sbagliate assai. In più The Donald, anche per la sua formazione da tycoon e da uomo di comunicazione, è dotato di quel camaleontismo che in questo caso si applicherà a un'evidenza: una cosa è la campagna elettorale e un'altra cosa è la leadership presidenziale. Specie in un Paese nel quale l'inquilino della Casa Bianca non è un monarca assoluto e vige un sistema di governo sufficientemente robusto per sopportare e per supportare una figura eterodossa qual è il Ciuffone. Il rischio insomma è che i profeti dell'Apocalisse siano smentiti un'altra volta.

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