Ungheria alle urne contro Bruxelles sulle quote dei migranti, incognita quorum

Ungheria alle urne contro Bruxelles sulle quote dei migranti, incognita quorum
di Flaminia Bussotti
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Domenica 2 Ottobre 2016, 10:16 - Ultimo aggiornamento: 19:01

LA SFIDA
BERLINO Il referendum di oggi sul si o no in Ungheria alle quote obbligatorie di profughi in Europa è nato da un calcolo tattico ad uso meramente interno del premier Viktor Orban e, molto probabilmente, non avrà alcun effetto giuridico per l'Ue. Ma la sua valenza simbolica, con il vento populista che soffia da tutte le parti e le elezioni alle porte in diversi paesi, è massiccia e destabilizzante.
L'Ungheria è fra i falchi più agguerriti contro la politica di migrazione europea nel gruppo di Visegrad che riunisce quattro paesi esteuropei (con Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia). Sapendo che sul no ai profughi c'è consenso, Orban cavalca il tema per rafforzare il suo potere interno e contrastare a destra gli ultranazionalisti di Jobbik che rappresentano una minaccia per il suo partito conservatore Fidesz. Divenuto per le sue sparate autoritarie una specie di Kim Jong-un europeo, Orban (53) è un veterano del potere: è stato premier nel 1998-2002 e di nuovo dal 2010 quando conquistò con Fidesz (Alleanza dei giovani democratici) una maggioranza inespugnabile per di due terzi in Parlamento. In passato ha avuto trascorsi di dissidente del regime, e di militanza fra i socialisti: a 26 anni divenne di colpo famoso per avere chiesto in un discorso su Imre Nagy, eroe della rivolta del '56, tenuto a giugno 1989, prima della fine della cortina di ferro, il ritiro delle truppe sovietiche. Oggi, per il suo pugno di ferro sui migranti e in politica interna, Orban è spesso accusato di violazioni dei diritti umani. Il suo partito è nel gruppo dei popolari (Ppe) al Parlamento europeo.
LA DOMANDA
Al referendum i circa otto milioni di aventi diritto dovranno rispondere a una sola, semplice domanda: «Volete che l'Ue imponga anche senza l'avallo del Parlamento (ungherese) l'insediamento di cittadini non ungheresi in Ungheria?». La risposta è scontata: si stima che fino al 90% degli ungheresi diranno no. Il solo dubbio è se sarà raggiunto il quorum del 50%. Fidesz e Jobbik hanno fatto campagna per il no, l'opposizione di sinistra, che però è estremamente malconcia, ha invitato ad astenersi. In ogni caso, secondo i commentatori, per Orban sarà un successo politico. Anche se non venisse raggiunto il quorum, la stragrande maggioranza dei votanti voterà per il no, ovvero fino al 45% dell'elettorato complessivo. Dato che Fidesz è adesso attorno al 33%, per Orban significherebbe comunque la conquista di un'altra bella fetta di elettori, scippati agli altri partiti. Per il premier vorrebbe dire partire da una posizione di forza in vista delle politiche nel 2018, dove spera di poter riconquistare la maggioranza dei due terzi (che nel frattempo aveva perso) per poter tornare a fare il bello e il cattivo tempo nel Parlamento a Budapest.
LA SCOMMESSA
La carta dei profughi è stata per lui una manna. È cominciato tutto a inizio 2015 con l'arrivo in massa di kosovari, che in realtà non volevano restare in Ungheria ma tirare dritto in Germania. È partita così la campagna anti-stranieri che rubano il lavoro agli ungheresi. Poi, quando Berlino ha cominciato a rispedire indietro i kosovari, gli arrivi si sono fermati e la campagna xenofoba è proseguita sfiorando il ridicolo. Dopo però è cominciato il flusso dai Balcani (Afghanistan, Siria, Iraq): a giugno Orban ha cominciato a costruire la barriera lungo il confine con la Serbia e ad agosto è scoppiata la vera emergenza con le immagini terrificanti di profughi ammassati alla stazione di Keleti a Budapest e poi la decisione della Merkel di aprire le frontiere tedesche.
L'IMMAGINE
Con Jobbik che incalza Fidesz nei sondaggi, e cerca di sbarazzarsi della sua immagine estremista e antisemita, Orban ha afferrato al volo l'arma del populismo anti-stranieri: a febbraio 2016 ha lanciato l'idea del referendum. In Europa, oltre che seminare ancor più zizzania e suscitare sconcerto, non avrà effetti giuridici diretti. E forse neanche immediatamente politici perché nessuno ha interesse ad aggravare ulteriormente il concerto cacofonico di divisione che si leva a Bruxelles sui profughi.
Flaminia Bussotti
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