Un silenzio che disse tutto

Un silenzio che disse tutto
di Ted Neeley
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Venerdì 17 Ottobre 2014, 16:24 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 17:00
La mia vita, seguendo un disegno imprescrutabile, e dunque divino, ha molto a che fare con la figura di Gesù Cristo.



E per un accadimento che ho raccontato di recente, arrivando in Italia per la nuova versione teatrale di Jesus Christ Superstar, si è intrecciata con la lungimiranza del Pontefice che negli anni Settanta sedeva sul trono di Pietro: Paolo VI.



Sono nato in una famiglia di religione cristiana battista. La fede cristiana è qualcosa che mi appartiene fin dall’infanzia. Poi è successo il fatto straordinario: quel Cristo che fin da bambino avevo imparato ad amare, a considerare il salvatore dell’umanità, mi ha toccato da vicino. Mi è stato riservato il privilegio di essere chiamato a interpretarlo. Sullo schermo e in teatro. Un Gesù anni Settanta, gli anni della mia giovinezza, un uomo rock, grintoso, amorevole, immaginifico, forte.



L’idea di un Cristo versione rock venne a una coppia geniale della musica contemporanea, il compositore Andrew Lloyd Webber e il poeta Tim Rice. La loro opera Jesus Christ Superstar, che racconta gli ultimi sette giorni della vita di Gesù (l’ingresso a Gerusalemme, il processo, la condanna a morte e la crocifissione) e che in fondo è la testimonianza viva e dolorosa - resa al mondo dei posteri - di Giuda Iscariota, seguace del Nazareno e suo traditore, vive ancora oggi, senza flessioni.



Il doppio album, uscito nel settembre 1970, aveva come interpreti principali Ian Gillan (Gesù), Murray Head (Giuda) e Yvonne Elliman (Maria Maddalena). Quel disco fu una bomba. Esplose in tutto il pianeta con l’impeto del messaggio che il Nuovo Testamento contiene: Passione, Morte e Resurrezione di un uomo cui appartiene anche la natura divina.



Jesus Christ fu rappresentato per la prima volta in teatro a Broadway, dove rimase in scena per diciotto mesi. Nel ’72 arrivò l’allestimento londinese: un successo lungo otto anni. Finalmente, nel 1973, il film di Norman Jewison. Fui chiamato a parteciparvi. In un primo momento provai il ruolo di Giuda, che poi, però, venne affidato a un grande artista, il mio amico Carl Anderson, purtroppo scomparso dieci anni fa. A me - ecco il prodigio - venne invece proposto di interpretare Cristo.



La prima reazione fu di paura. Così, sui due piedi, non seppi decidere. Ero terrorizzato dall’impegno e dal significato di una parte come quella, La figura di Gesù è nota a tutti, è patrimomio della Fede e della Storia. Per i cristiani Gesù è il Figlio di Dio che si è sacrificato sulla croce allo scopo di redimerli. Ma anche gli altri, i musulmani, i buddisti, gli scintoisti, gli induisti, gli atei, lo conoscono, capiscono la portata rivoluzionaria della sua Parola e provano soggezione, tremore al pensiero della sua figura.



Quando alla fine accettai, ebbi ben chiaro che sarebbe stata una lotta tra me e me stesso, una sfida a superare i miei limiti, un calvario - lo dico con infinito rispetto - per arrivare ad abbandonarsi a tanta grandezza, a tanta sofferenza.



Di fronte al successo planetario del film, le reazioni dei cattolici furono tante e fra loro diversificate. I più tradizionalisti, ad esempio, molto esagitati, tentarono di impedire la proiezione romana. E qui entra in scena il Papa, che allora era Paolo VI.



Il regista, Jewison, fece avere in Vaticano la pellicola, perché il Santo Padre la vedesse privatamente. Così avvenne. Il Papa assistette in anteprima alla proiezione di Jesus Christ e capì fino in fondo il perché di quel film. Non disse nulla ufficialmente, ma nemmeno condannò l’opera. Il suo silenzio, se da una parte fu interpretato come una condanna (gruppi di tradizionalisti tentarono addirittura di picchettare le sale dove era programmata la proiezione), dall’altra “autorizzò” il film.



Jewison mi ha raccontato più volte di Papa Montini. Il Pontefice, dopo aver seguito il film con grande attenzione, osservò che quell’opera nuova avrebbe dato un grande contributo alla conoscenza del cristianesimo nel mondo. Spiegò che il momento storico particolare nel quale il mondo si stava dibattendo, in quei Settanta pieni di nuove istanze, era più pronto ad accogliere la Passione di Cristo attraverso la musica rock, tanto amata dai giovani, che non in altro modo. Gesù sarebbe arrivato a tutti, in ogni parte del pianeta, scavalcando lingue e appartenenze con la capacità di unire che solo la musica possiede.



Jewison non si è mai stancato di ripetere che quel giudizio fu il motore a reazione del nostro lavoro. Montini non fece alcuna obiezione sul modo in cui nel film sono resi i personaggi. Non fece critiche di tipo dottrinale, capì di trovarsi di fronte a una fiction, non a un trattato filosofico-religioso, e considerò soprattutto la portata emotiva dell’opera.



Il nostro Gesù lo lesse come era, come è: un uomo che soffre, un uomo che si sacrifica e accetta la croce. Apprezzò l’immagine finale, in cui un gregge di pecore, guidato dal pastore, taglia il tramonto contro il quale si staglia la croce con il Cristo morto. Ci vide un annuncio della gloria della Resurrezione.



Anche grazie all’atteggiamento illuminato di quel Papa mi sono confermato nella fede. E oggi, dopo quarant’anni densi di recite in cui vado in scena vestendo i panni di Gesù, continuo a provare una concentrazione speciale, un brivido profondo e le stesse emozioni della prima volta, che si rinnovano, però, ad ogni alzata di sipario.



A Roma, l’anno scorso e quest’anno, sono stato per l’ennesima volta il Nazareno nello spettacolo diretto da un regista italiano, Massimo Romeo Piparo. E con lo stesso spettacolo mi trovo adesso in tournée.

Il mio passato e il mio presente sono segnati da quel film. Sul set di allora ho incontrato la donna che è diventata mia moglie (era danzatrice nel corpo di ballo). In piazza San Pietro, un paio di mesi fa, ho invece incontrato papa Francesco. Era un mio sogno.



Mi sono sentito confermato nei valori in cui credo, nella certezza che il messaggio evengelico riscatta gli ultimi, i più poveri, i più deboli, i meno rispettati. Francesco ne parla ogni giorno. Eppure il mondo non ha dimenticato la guerra. Nello stesso modo io non dimentico la lungimiranza di Paolo VI, il suo placet silenzioso, il suo aver compreso lucidamente come i Settanta dei figli dei fiori e del pacifismo fossero aperti più di altri decenni alla comprensione e alla diffusione di Cristo e del suo lascito.



Eravamo sinceri. E lo siamo rimasti.
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