Schwazer: volevo tutto e ho perso tutto

Schwazer: volevo tutto e ho perso tutto
di Marco De Martino
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Giovedì 9 Agosto 2012, 09:01 - Ultimo aggiornamento: 09:02
ROMA - Piangono anche i giovani dopati, i puffi biondi dall’aria solitamente beata, i nordici che pure sono pensati come algidi robot. Piangono e anche malamente, come campioni che non vorrebbero farsi vedere piangere. Così ieri mattina in una saletta dell’hotel Sheraton di Bolzano ha pianto per un’ora di seguito e a reti unificate Alex Schwazer, seduto su una sedia di plastica davanti a duecento giornalisti, a un mazzo di microfoni, alle telecamere tv, e inchiodato al muro dal fuoco crescente delle sventagliate opalescenti dei flash.



Lo sport ha tante memorie di pianti per traguardi smarriti, o per errori, o punizioni, ma in tanti anni non ne ricordiamo uno così disperato, prostrato, straziante, commovente. Mani sulla faccia e sguardo sul pavimento, i capelli spettinati come un letto sfatto, la maglietta nera senza uno straccio di sponsor perché non puoi stare sulle scatole di cereali se sei stato cattivissimo, il ragazzo che sembrava di ferro ha confessato la follia che ha messo la parola fine al suo bel viaggio. C’era una volta e adesso non c’è più, rapito da una sorta di sindrome alla Dorian Gray. In altre parole: non tanto la voglia di vincere, quanto piuttosto il terrore di perdere. Seguono singhiozzi.



Le parole di Schwazer inceneriscono il taccuino degli appunti. Ecco allora quel che resta di lui contro il resto del mondo, dall’inizio: «L’eritropoietina l’ho comprata l’anno scorso a settembre in Turchia, ho preso l’aereo, sono andato ad Antalya, ho messo 1.500 euro sul bancone del farmacista che non ha fatto domande e sono tornato a casa. In Italia non sarebbe stato possibile. Quella è stata la prima e unica volta che ho acquistato un farmaco dopante perché in carriera sono sempre stato pulito. Ho fatto tutto da solo e non ho detto niente a nessuno, lo so che sembra strano ma credetemi, si può. Mi sono documentato su internet, non è stato difficile».



Pianto e parole si mischiano, Schwazer ha l’anima sbriciolata come un cracker: «Volevo tutto e ho perso tutto, ma la colpa è dell’oro di Pechino che mi ha messo addosso una pressione insostenibile. Volevo essere sempre più competitivo e così mi è andato in tilt il cervello, ogni giorno pensavo solo a nutrirmi per tre ore, ad allenarmi per sei ore e a dormire per quindici ore. Prima di Pechino uscivo, mi divertivo, ero sereno e ho vinto l’Olimpiade in 3 ore e 37’; dopo Pechino, invece, le aspettative mi hanno strangolato al punto di sentirmi in colpa anche se andavo a bere una birra con un amico e tornavo a casa con un’ora di ritardo. Ogni giorno mi dicevo: cosa succederà se non vincerò anche a Londra? Così mi sfiancavo negli allenamenti al punto che negli ultimi tempi la fatica mi dava la nausea e la marcia mi disgustava. Mi svegliavo la mattina con l’incubo della giornata che avevo davanti».



Ancora: «Ho tolto l’epo dalla sua scatola e l’ho messo nel frigo, ho detto a Carolina che era vitamina B12, ero completamente fuori di me, sognavo che lei uscisse di casa per correre in bagno a doparmi. Il 13 luglio ho avuto un controllo antidoping della Wada a Oberstdorf, subito dopo ho iniziato a farmi le iniezioni. Da quel momento ho vissuto l’inferno, non sono mai più riuscito a dormire, mi svegliavo alle 3 di notte collegando ogni rumore agli ispettori antidoping, un incubo dietro l’altro. Domenica 29 luglio, nel giorno del compleanno di mia mamma, ho preso l’ultima dose; ma il giorno dopo, lunedì 30, quelli della Wada hanno suonato a casa, erano tornati. Avrei potuto dire a mia madre di non aprire o di dire che non c’ero, negli ultimi 18 mesi non avevo saltato un controllo e me la sarei cavata. Ma non ce l’ho fatta, non avevo più la forza di fare nulla, così mi sono sottoposto al controllo velocemente, tanto sapevo che mi avrebbero beccato, che ormai era finita. Ed è stata una liberazione».



Le lacrime proprio non se ne vogliono andare, non possono. «Con il dottor Ferrari mi sono incontrato solo qualche volta e sempre per consigli tecnici o per avere tabelle di allenamento, una volta nel maggio del 2010 anche sull’autostrada a Verona dopo una gara a Sesto San Giovanni, ma lui è un grande preparatore e questo lo sanno tutti, in ogni caso quando è andato nei guai con i ciclisti gli ho subito scritto una mail per chiudere il rapporto. E le mail restano. A casa ho quattro medaglie e sono tutte pulite, ora il Cio vuole rivedere i miei esami del 2008 ma non troverà nulla, a Pechino ho corso con 12,8% di emoglobina, da anemico. Piuttosto avrei dovuto rinunciare all’idea di fare 20 e 50 km, ecco dove ho sbagliato, ma ero in trance, volevo il massimo e non mi sono accontentato. I 50 a Londra li avrei vinti anche senza doping, sono stato un pazzo».



Schiacciato dalle aspettative, per comprendere davvero cosa gli è passato per il cervello ci vorrebbe J.C. Jung. Dolore anche dai tradimenti: «Soffro per aver detto bugie a tutti ma soprattutto a Carolina, una persona speciale. Quando ha saputo dell’epo mi ha detto solo che non mi meritavo una cosa così e che comunque mi amava e non mi avrebbe lasciato. La differenza tra me e lei è che Carolina è felice per quello che fa, mentre io da tempo odio tutto quello che è la marcia».



Titoli, ori, record, primati, adesso tutto passa in secondo piano: «Non voglio sconti e all’atletica non torno più, da oggi in poi voglio solo vivere come un ragazzo normale, tornare a casa la sera dopo il lavoro e trovare la mia fidanzata, poter vedere i genitori non un mese l’anno ma quando voglio io, andare avanti senza ansia e senza stress perché la vita è quella normale, non quella estrema e assurda che ho condotto io. Tra qualche ora non sarò più nemmeno un carabiniere perché andrò a Bologna a restituire pistola e tesserino, e dico questo con il cuore spezzato perché senza l’Arma non avrei mai fatto la carriera che ho fatto. Spero che i giovani possano tornare a stimarmi, un giorno. In ogni caso sono contento che tutto sia finito. In qualche modo torno a vivere, finalmente, ecco».
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