Capiva i giovani, lasciò entrare il folk in chiesa

Capiva i giovani, lasciò entrare il folk in chiesa
di Ennio Morricone
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Venerdì 17 Ottobre 2014, 16:27 - Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 17:00
Nel periodo che è corrisposto al pontificato di Paolo VI, ho lavorato molto. Anni difficili per il Paese - li hanno chiamati, non a caso, gli anni di piombo -, che per me, nel ricordo, hanno appunto il volto del lavoro continuo, della massima concentrazione.



Il movimento hippie che anche musicalmente è sfociato in tanti prodotti, l’ho vissuto come da lontano. In quel periodo, certo, le chitarre, elettriche e non, sono entrate nelle chiese. Nei cinema si proiettava la passione di Cristo versione rock. I giovani andavano alle funzioni religiose per suonare e cantare, prolungando il tipo di musica che ascoltavano in casa o tentavano di riprodurre nelle cantine, con i loro complessini.



Credo che il Papa si sia trovato, dopo il concilio Vaticano II e la riforma liturgica, nella necessità di non vietare espressioni di un certo tipo: rispondevano alle nuove esigenze della comunità ecclesiale ed erano in grado di mantenere all’interno della stessa l’inquieto popolo dei giovani.



Quanto al mio parere personale, le chitarre in chiesa non mi sono mai piaciute. Musica e religione cristiana sono sempre vissute in stretta simbiosi: alcune forme musicali sono nate e cresciute per andare incontro alle esigenze della liturgia. Pensiamo al corale, alla cantata, alle sonate di epoca barocca. Senza contare il canto gregoriano che rimane alla base di tutto. Il Concilio di Trento dettò regole precise.



Nel rito cristiano la musica è uno strumento di preghiera a tutti gli effetti, dai tempi in cui il popolo di Dio, che non era in grado di capire con chiarezza la Parola, vi aderiva fideisticamente, aiutato dalle emozioni provocate dalla musica e dal canto. Nei Settanta di Paolo VI, il rinnovamento e le chitarre delle quali abbiamo parlato tentarono di sostituire questo tipo di elevazione. Per la frangia giovanile probabilmente ci riuscirono, se non completamente, almeno in parte. Resta il fatto che la musica religiosa rimane legata al gregoriano, al suono dell’organo, a Bach, ai grandi pezzi che quasi tutti i compositori hanno dedicato al Sacro.



La liturgia postconciliare comportò, di fatto, la riduzione dell’utilizzo della tradizione musicale usata per secoli dalla Chiesa cattolica, benché il Vaticano II non tralasciasse di raccomandare che l’organo a canne mantenesse il primo posto tra gli strumenti, e il gregoriano avesse nelle celebrazioni il posto principale. Inoltre la polifonia avrebbe dovuto conservare una posizione speciale. Gran parte delle parrocchie si orientò invece verso i canti e la musica folk, accompagnati dalle chitarre, dalle tastiere elettroniche e dagli strumentini a percussione.



Non per conservatorismo, ma per puro spirito di cultura personale, sono andato a cercare alcune cose sul web. Pio X chiamava la musica «umile serva della Liturgia». Pio XI la definì: «nobilissima serva della Liturgia». Pio XII «quasi compagna della Liturgia». Paolo VI addirittura «nobile ausiliaria della Liturgia e sorella della Liturgia». Il Concilio Vaticano II, come si diceva prima, riprese e potenziò questi giudizi, proclamando la musica «parte necessaria e integrale della Liturgia» e riaffermandone l’efficacia «per la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli ».



Tanti precetti trovo nelle disposizioni conciliari, precetti sui quali immagino che Paolo VI sia stato d’accordo. Vogliamo innanzitutto citare quello relativo all’ingresso nelle chiese di strumenti diversi dall’organo a canne, tenendo presente che negli anni Settanta furono adoperati nelle funzioni religiosi anche strumenti etnici, in uso presso popolazioni esotiche. È possibile usare nuovi strumenti - dice la regola - a patto che siano in grado di promuovere la musica tradizionale. E ribadisce subito dopo che la Chiesa latina deve avere «in grande onore» l’organo a canne, il cui suono «è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti».



Quanto alle chitarre, elettriche e non, alle tastiere e agli altri strumenti in uso nei gruppi rock, c’è un via libera, ma con cautela: «Si possono ammettere nel culto divino altri strumenti, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli».





Siamo sicuri che le varie messe rock che si ascoltavano in quegli anni contribuissero all’elevazione dei fedeli? Ripeto: il Pontefice non si sarà espresso in modo contrario nella necessità di non disperdere l’afflusso dei giovani, ma io ero, sono sempre stato e rimango contrario.



Mi trovo del resto in ottima compagnia. Anche il maestro Riccardo Muti ha più volte invocato il ritorno alla grande musica sacra. Ho trovato una sua netta dichiarazione in questo senso: «Ho denunciato il costume (io lo chiamo malcostume) di suonare in chiesa canzoncine banali accompagnate da strimpellatori, con testi vuoti di significato e profondità in luoghi dove allora sarebbe meglio il silenzio per raggiungere un senso di congiungimento col divino. Se si pensa alla forza genuina e trascinante che hanno i gospel afro-americani... Mi stupisco che i parroci continuino a tollerare l’oblio degli organi a canne.



Il Papa emerito, Benedetto XVI, che è un eccellente musicista, ha fatto notare che molte chiese sono dotate di organi che potrebbero essere suonati da qualsiasi allievo di conservatorio. Il non servirsene è un segno di decadimento della società oppure di coloro che dovrebbero sovrintendere a questo messaggio? Nelle nostre chiese una volta risuonavano Orlando di Lasso, Marenzio, Palestrina. Oggi è interessante Arvo Pärt. Non certo altre cose».



Mi risulta infine che il premio Paolo VI del 1988 (si tratta del premio sorto subito dopo la scomparsa di Papa Montini, a cura dell’Istituto Paolo VI di Brescia) sia stato assegnato a Olivier Messiaen, con una motivazione in cui si parla di «complessa personalità artistica» e di «multiformità dell’opera musicale» che «traggono fondamento e ispirazione da un’intensa sensibilità religiosa coniugata ad un profondo amore per la natura».



Il Premio fu consegnato al maestro il 28 marzo 1989, nel corso di una cerimonia nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, dal cardinale arcivescovo Jean-Marie Lustiger.
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