Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

La ricostruzione/ Cosa cambia per i Talebani dopo la strage dell’Isis-K

di Vittorio Emanuele Parsi
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Sabato 28 Agosto 2021, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 00:13

L’ecatombe di due giorni fa a Kabul cambia necessariamente le cose, nel senso che inserisce una serie di emozioni e una serie di cambiamenti di fatto nella nostra lettura e nel nostro tentativo di comprensione della realtà afgana e del suo impatto sulla nostra realtà. A partire da quella più immediata: i discorsi sulla possibilità o impossibilità del “dialogo” – cioè di un rapporto che vada oltre lo spararsi addosso – con i Talebani assume subito una gravitas diversa. Si de-ideologizza, ovvero ci costringe a fare molta più attenzione al peso delle parole che impieghiamo e alla loro relazione – maggiore, minore o totalmente assente – con il reale. Nella consapevolezza, ovviamente, che il mondo del reale è costituito anche da idee, emozioni, principi e non è riducibile a una meccanica inanimata. Di fronte all’azione scellerata dell’Isis-K, che ha cercato scientemente ma non ciecamente la strage degli innocenti, i Talebani non diventano ovviamente dei modelli di virtù, ma siamo costretti a prendere atto che anche nell’inimicizia – né più né meno che nell’amicizia e persino nell’amore – esistono gradazioni diverse.

Evidentemente, tutto ciò potrà essere, lo è già stato, strumentalizzato per arruolare sotto le bandiere dei propri pregiudizi, dei propri interessi – spesso prezzolati – della propria inappropriatezza intellettuale o etica le centinaia di morti e feriti di Kabul. 

Per tutti gli altri, per quelli come noi che cercano sempre di porsi domande alle quali trovare risposte e non di validare un teorema, una marchetta o altro, invece ciò che è successo ci richiama alla complessità della realtà, alle contraddizioni che la compongono tanto quanto lo fanno le coerenze. Ci riportano alla limitatezza dei nostri strumenti di comprensione e a quella dimensione di umiltà che è sempre necessaria per imparare e, che è persino un dovere morale quando in gioco ci sono così tante vite. E così tante morti.

Quindi, tanto per capirci, i Talebani dopo l’attentato di Kabul non sono gli stessi. Non necessariamente perché siano “cambiati” rispetto a quelli scacciati a suon di bombe dal potere alla fine del 2001, dall’intervento degli americani. Ma semplicemente perché, nel frattempo, è nato l’Isis – che non è certo scomparsa con il dominio territoriale del “califfato” di Mosul e che è una cosa profondamente diversa dai Talebani. Lo era anche prima. Semplicemente ora solo gli sciocchi – e i loro servi – non lo capiscono o fingono di non capirlo. Così, gli islamisti, i fondamentalisti, i terroristi non coincidono gli uni con gli altri. Il regime pakistano, quello saudita e quello iraniano, Hamas ed Hezbollah, i Talebani, al-Qaeda e l’Isis non sono la stessa cosa. Nessuno si ispira ai principi in cui crediamo, né rispetta i valori che illuminano la vita di molti di noi. E ovviamente sarebbe da irresponsabili non cogliere queste differenze e cercare di sfruttarle per sconfiggere i nostri nemici mortali, traendo giovamento dalle loro differenze reciproche, dal loro odio reciproco persino.
Tutto ciò, altrettanto ovviamente, non trasforma in “alleati” i Talebani e gli americani o gli europei e gli iraniani, tanto per intenderci, e neppure è detto che l’individuazione del nemico comune consenta alle nuove autorità di Kabul e alla presidenza di Washington “torsioni” immaginifiche nelle loro relazioni.

Questo vale per entrambi. Allo stesso tempo illustra meglio di qualunque discorso quanto per russi e cinesi sia tutt’altro che semplice “prendere il posto” degli americani, sia pure con strumenti diversi da quelli militari. È molto improbabile che l’Afghanistan torni ad essere un santuario per qualunque formazione terroristica. Ma lo è molto meno che il fallimento dello State building americano in Afghanistan non possa invece trasformarsi in un operazione di ricostruzione del Paese grazie alle demilitarizzazione e all’avvio di un dialogo politico con i Paesi che fino ad oggi consideravano l’Afghanistan un territorio di conquista.

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