Alessandro Campi
Alessandro Campi

Da Kurz a Zemmour/Quei leader improvvisati che fiaccano le democrazie

di Alessandro Campi
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Martedì 7 Dicembre 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 9 Aprile, 19:42

Leader che cadono, leader che ascendono. E con una velocità tale che non fai in tempo a imparare un nome o a riconoscere un volto che già ti tocca aggiornare la galleria dei ritratti che sta nella tua memoria sotto la voce “uomini politici importanti”. La politica contemporanea è davvero una maionese impazzita. Per meglio dire, un film che scorre troppo veloce, i cui attori cambiano continuamente: difficile comprenderne la trama, sempre che ci sia.
Sebastian Kurz, classe 1986, cancelliere austriaco dal 2017 al 2021, era l’uomo nuovo (e forte) del popolarismo europeo, una sorta di Merkel in doppiopetto e con la brillantina. Uno cresciuto a pane e politica. Sveglio, capace, nonché pronto a tutto pur di stare al potere: per due anni ha governato coi nazional-populisti, poi si è alleato con i Verdi. Sino allo scandalo che l’ha travolto nell’ottobre di quest’anno: accusato di avere impiegato soldi pubblici per pagarsi sondaggi privati (per di più taroccati). 


Qualche giorno fa ha annunciato il suo irrevocabile ritiro dalla scena pubblica, a nemmeno quarant’anni. Pare voglia dedicarsi al figlio appena nato. Encomiabile, anche se detta così fa un po’ ridere. 
Éric Zemmour, classe 1958, era sino a poche settimane fa il più popolare opinionista della destra nazionalista francese: un conservatore rude (un fascista, secondo i suoi avversari, con l’aggravante d’essere un ebreo che usa le sue origini religiose come schermo per l’estremismo verbale di cui è maestro) che da anni si batte per la difesa dell’identità francese minacciata dall’islamismo.

 
Oggi è un concorrente – non del tutto improbabile – nella corsa per la Presidenza. Si dice che Zemmour, candidato di destra estrema, riuscirà solo a frenare la corsa di Marine Le Pen, candidata di estrema destra. Oltre a infliggere qualche serio danno alla destra gollista. Insomma, è uno che per difendere i valori della tradizione rischia seriamente di far rivincere Macron (quel “signor Nessuno”, come l’ha sprezzantemente definito l’altro giorno durante il comizio d’apertura della sua campagna elettorale).


Outsider populista da prendere sul serio (evitando le spiritosaggini con cui venne accolta la discesa in campo di Berlusconi) o “utile idiota” della sinistra globalista che dice di combattere? La cosa interessante è che Zemmour sino all’altro ieri scriveva libri e conduceva programmi radiofonici; adesso guida un partito tutto suo (“Reconquête”, ovvero “Riconquista”, come quella che portò la Spagna cattolica a sconfiggere i regni moreschi musulmani dopo una dominazione di quasi otto secoli) e potrebbe, visto che alla Storia non manca il senso dell’umorismo, sedere all’Eliseo.


Leader che vanno, leader che vengono. Kurz è un professionista bruciatosi nel giro di pochi anni: probabilmente perché ha troppo confidato nella sua immagine di giovane brillante, vincente, senza rivali e tanto potente da considerarsi al di sopra della legge. Quanto durerà nei suoi nuovi panni da capopopolo il dilettante Zemmour, che a sua volta sembra fare così grande affidamento sul suo talento oratorio e su una retorica patriottica assai appassionata? Come si spiegano carriere tanto eccentriche? Come si costruiscono le leadership politiche contemporanee? Come si spiega in particolare la loro crescente fragilità (sono ormai tanto intense quanti brevi)? 


Molte cose sono in effetti cambiate rispetto al recente passato. Ad esempio, le forme di reclutamento dei capi: un tempo affidate alla competizione interna ai partiti, quando questi erano ancora strutture organizzative ben radicate nella società e non soltanto (o sempre più) macchine elettorali al servizio del capo del momento. Si sono poi drammaticamente indebolite le culture politiche all’interno delle quali i leader si formavano: un tempo essi erano l’espressione di una tradizione e di una visione della società, oggi sono l’incarnazione di un sogno individuale di potere o, peggio ancora, il frutto occasionale di qualche particolare congiuntura storica.


All’apparenza, Merkel e Kurz sono entrambi cristiano-popolari ed esponenti di storici partiti. Ma mentre la prima ha cercato di guidare la società tedesca in un’epoca di grandi trasformazioni economiche e sociali, il secondo s’è limitato a cavalcare il successo e a coltivare una visione egolatrica del potere.

La diversità dei loro personali destini, frutto anche di una differenza generazionale e psicologica, spiega bene come le appartenenze ideologiche siano diventate sempre più formule vuote, un modo per dare quarti di nobiltà culturale ad una politica spesso puramente cinica o personalistica.


Ma il colpo di grazia alle leadership d’un tempo – quelle che duravano almeno dieci-quindici anni e che non nascevano in modo espressionistico o casuale – l’ha dato evidentemente la rivoluzione mediatico-digitale. La comunicazione – in tempo reale, usa e getta, sempre più basata sulla capacità di persuadere manipolando, incantando e spesso mentendo senza vergogna – s’è mangiata qualunque progettualità di lungo respiro. Era già così con la televisione, è diventata una regola assoluta con la diffusione massiva dei social media.
Le emozioni e gli istinti hanno sostituito gli ideali sorretti dalla ragione. L’estetica (il corpo, il giovanilismo, l’apparire svelti e intraprendenti, glamour e friendly, l’uso di un linguaggio banalizzante e semplificato) è prevalsa sempre più sull’etica e sul rigore nei comportamenti individuali. La popolarità ottenuta non importa come (spesso fuori dall’ambito politico, dallo spettacolo al giornalismo) ha scalzato la credibilità che nasceva dall’esperienza nelle istituzioni e da una lunga militanza politica.


Ha così finito per invertirsi anche il rapporto del leader con la massa: un tempo il primo era tale se si proponeva al prossimo come modello o esempio, oggi è il leader che, per catturare il consenso a buon prezzo, si limita ad assecondare gli sbalzi d’umore dei seguaci. A promettere loro ciò che questi ultimi vogliono sentirsi promettere: certo non sangue, sudore e lacrime ma prebende, favoritismi e sussidi a carico dell’erario pubblico.


Aggiungiamoci il discredito crescente della politica, causato dalle sue cattive performance e dalla difficoltà con cui essa, divenuta conservativa e autoreferenziale, risponde agli interessi reali dei cittadini. Ciò favorisce sempre più gli outsider, coloro che si presentano sulla scena dicendo di non aver nulla a che fare con i partiti e con la politica tradizionale. In Italia, da Berlusconi a Conte, da Di Pietro a Grillo, ne abbiamo avuti molti esempi. Zemmour, dal canto suo, è solo una replica nazional-populista del tecno-populismo già cavalcato con successo da Macron: diverso il segno ideologico, medesima la pretesa di rinnovare la politica spazzando via le solite facce.


Tutto ciò ha finito per sommarsi con un fenomeno più generale: il fatto che il tempo sia divenuto la variabile cruciale delle società contemporanee, come mostra la loro crescente dipendenza dalle tecnologie informatiche. Lo spazio è una grandezza fisica non riducibile. Il tempo, essendo immateriale, si può invece comprimere: nello sport, dove si va sempre alla ricerca di nuovi record, alla vita sociale, dove è ormai considerato un dovere se non una virtù realizzare qualunque attività o impegno nel minor tempo possibile, sino a cercare di annullarlo. 


Questa contrazione dell’orizzonte temporale vale anche per la politica, dove ormai conta vincere e non durare, comunicare in tempo reale e non programmare, promettere ogni giorno una cosa diversa e non governare per il domani. Mentre gli elettori, vittima a loro volta della stessa sindrome, vogliono tutto e subito, cercano il cambiamento per il cambiamento, vanno in cerca di personalità politiche sempre nuove, in grado di assumere decisioni che si vorrebbero sempre più veloci e tempestive, mentre invece rischiano di essere, essendo non sufficientemente meditate, soltanto frettolose, superficiali e nocive. 
Leader usa e getta, oggetto di innamoramenti effimeri, capaci di resistere una sola stagione, che spariscono con la velocità con cui sono apparsi. Per le democrazie contemporanee sta diventando un problema serio e drammatico, la causa principale della loro instabilità. 
 

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