Alessandro Campi
​Alessandro Campi

La miccia accesa/A chi parla la rivolta che incendia la Francia

di ​Alessandro Campi
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Domenica 2 Luglio 2023, 23:23 - Ultimo aggiornamento: 3 Luglio, 06:02

Sorprendersi per le violenze - difficile dire quanto spontanee o quanto organizzate - scoppiate in Francia dopo l’uccisione di un ragazzo ad opera di un poliziotto?
In realtà, è dal novembre 2018, quando comparve il movimento dei “gilet gialli”, cittadini di classe media che protestavano contro l’aumento dei prezzi del carburante e del costo della vita, che quel Paese è attraversato da scoppi di rabbia collettiva che il governo è riuscito a contenere solo facendo appello alla fermezza repubblicana. Quell’inedita forma di insurrezione civica, nata attraverso i social come quella odierna, durò mesi e scemò solo a causa delle restrizioni nei movimenti imposti dalla pandemia.


A maggio di quest’anno ci sono poi stati i grandi scioperi di massa indetti dai sindacati contro la decisione del governo di innalzare di due anni l’età pensionabile. Le mobilitazioni, ideologicamente traversali, sono durate per settimane, hanno coinvolto contemporaneamente centinaia di città e sono spesso sfociate in assalti e scontri, ai quali le autorità hanno risposto con la mano ferma e con migliaia di poliziotti armati di tutto punto nelle strade. 
Quanto alle banlieue delle metropoli, dove oggi si concentra la guerriglia notturna animata da giovanissimi che si sentono emarginati e sfruttati da un potere al quale non riconoscono alcuna legittimità, da decenni ribollono e sono fonte di tensioni. 

Nate come dormitori per le classi lavoratrici inurbate, nel frattempo sono diventate comunità chiuse nelle quali ci si aggrega secondo criteri etnici e nelle quali molti - soprattutto ragazzi e ragazze con bassa istruzione e poco speranza di entrare nel mercato del lavoro ufficiale con una paga decente - sopravvivono grazie ai sussidi dello Stato, alla solidarietà di quartiere o a un qualche tipo di attività illegale. 


Certo, per spiegare questi fenomeni ricorrenti si può sempre attingere alla storia. Quella francese è in effetti particolare. Le esplosioni di rabbia popolare - un tempo contadini, operai, studenti, ora borghesi, lavoratori anziani e immigranti di seconda o terza generazione - sono state una costante sino a produrre un abito mentale che nella violenza sembra vedere lo strumento obbligato di soluzione delle contese sociali e politiche.
Ancora oggi, si dice che i francesi amano partecipare alla vita pubblica protestando invece che utilizzando lo strumento del voto o il dialogo tra avversari. Ma dovrebbero anche chiedersi quanto abbiano prodotto tutte le rivolte e insurrezioni di cui sono stati protagonisti, alcune delle quali - le barricate a Parigi del 1848, la Comune del 1871, il Maggio 1968 - passate alla storia anche per il loro carattere teatrale: messe in scena di una rivoluzione, quella del 1789, che da allora ha prodotto parodie, cattive repliche e psicodrammi. E che a loro volta come effetto hanno avuto soprattutto quello di mettere in allarme i benpensanti e i fautori dell’ordine costituito anche se ingiusto. Anche stavolta, chi si frega le mani per il caos crescente - sul quale si sono buttati a pesce i soliti professionisti delle barricate: anarco-insurrezionalisti, black block, ambientisti radicali, quel che rimane dell’ultrasinistra anto-capitalista - è la destra dura e pura: quella lepenista che finalmente si vede all’Eliseo. 


Ma la storia, cioè la cronaca entrata nei libri, se spiega molto, non spiega tutto. Ci sono molti fattori nuovi e contingenti alla base di quel che sta accadendo da alcuni anni in Francia. Innanzitutto, riguardo le cause di tutta questa rabbia mal repressa, che non coinvolge più - come in passato - questo o quel segmento, ma la società nella sua interezza. Tutti hanno paura, tutti sono scontenti, tutti si sentono sul piede di guerra.

L’elenco di tali cause rischia di essere lungo, a cominciare da quelle economiche. Chi pagherà i costi della transizione verde o energetica nessuno lo ha ancora spiegato con chiarezza. Qualcuno vivrà povero ma in mondo più pulito: non sembra in effetti una bella prospettiva. Ma la verità più amara è un’altra: non si sa più come alimentare, con una ricchezza pubblica che si contrae a beneficio di quella privata sempre più concentrata in poche mani su scala globale, la cornucopia redistributiva dello Stato sociale. Tutto a tutti - pensioni, assistenza sanitaria, scuola gratuita: siamo probabilmente alla fine di un modello di cittadinanza, peraltro esclusivamente europeo, al quale nessuno vuole rinunciare pur sapendo che dovrà farlo. Di qui la rabbia che diventa risentimento e, alla prima occasione, violenza.


Poi ci sono i fattori sociali. La crisi di autorità dello Stato che nasce a sua volta dalla crisi dei processi formativi e della famiglia: un vuoto riempito dall’universo delle piattaforme digitali divenute per le ultime generazioni l’unico mondo “reale” conosciuto, ma senza che ciò possa produrre legami sociali duratori, al massimo gruppi autoreferenziali composti da monadi. E ancora: la crisi del modello repubblicano basato sull’integrazione per assimilazione: può valere per gli individui (e l’ideologia fondante della Francia repubblicana è l’individualismo), non per i gruppi, le etnie, le comunità.


Accade dunque che milioni di persone abitano in Francia, ma si considerano ad essa estranee. Se una nazione parla attraverso i suoi simboli - quelli ufficiali, come la bandiera o l’inno, ma anche quelli ordinari: i nomi delle strade, le statue nelle piazze, i ricordi che rimontano agli anni della scuola - bene, questo patrimonio visivo e memoriale non evoca nulla in chi semplicemente, pur vivendo sul suolo di Francia, non si sente francese, anzi ne odia e contesta le istituzioni.


Molti francesi, come la gran parte degli europei odierni, non vogliono sentir parlare di battaglie identitarie: sono stanchi, evidentemente, della troppa storia che hanno alle spalle. Ma parlare il linguaggio fumoso dell’inclusione non li mette riparo dall’essere contestati e messi sotto accusa da chi un’identità la possiede, la rivendica e la difende. Infine, gli aspetto politici e istituzionali. Il presidenzialismo gollista spesso portato a modello (anche in Italia) evidentemente non si addice ad una società che ha visto indebolirsi le storiche agenzie di intermediazione sociale (partiti, sindacati, club, associazioni, le stesse comunità religiose) e ha visto dunque accrescersi il vuoto della rappresentanza.

Il cittadino solo dinnanzi al leader non ha armi per difendersi o strumenti per farsi sentire. Può solo applaudire o coltivare un risentimento sordo che alle fine, per contagio, inevitabilmente finisce per esplodere.
Ma tutto questo - ecco il punto - se riguarda la Francia, in realtà va oltre la Francia. Se le banlieue sono una particolarità francese, il rifiuto delle nuove generazioni di immigrati per le società d’accoglienza è un fenomeno che si sta generalizzando (dal Belgio alla Svezia). Così come è sempre più diffuso, nelle diverse generazioni e classi sociali, il timore per un futuro dal quale si teme di venire esclusi e per un benessere individuale e collettivo divenuto nel frattempo un ricordo. Queste esplosioni ricorrenti di violenza sembrano dunque la prefigurazione di quel che potrebbe presto accadere in molte parti d’Europa, sempre che la politica non trovi prima i rimedi giusti.

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