Essere presenti al grande summit sui cambiamenti climatici è, sicuramente, un’esperienza. Soprattutto per i più giovani. La sensazione è un po’ a metà tra le grandi esposizioni universali e il villaggio degli atleti alle olimpiadi. Si incontrano nel giro di qualche metro (e per i cinque chilometri che separavano, quest’anno gli ingressi di Cop) attivisti brasiliani, programmatori estoni, ministri nigeriani, grandi società di consulenza.
Tuttavia, la sensazione è quella che – per quanto utile e piacevole su un piano personale – Cop sia uno strumento assolutamente insufficiente rispetto alla portata del problema che continuiamo a ritenere la più grande minaccia che l’umanità abbia mai affrontato.
L’idea che chiunque si fa di Cop è quella di un enorme sforzo organizzativo che fallisce. Anche per l’essere così enorme. L’edizione di Dubai ha superato tutti i record precedenti ospitando centomila persone. Significa che solo per le spese di trasferta, i delegati sono costati circa 300 milioni di Euro. Gli aerei che li hanno trasportati hanno rilasciato quattrocentomila tonnellate di anidride carbonica che è pari circa alle emissioni totali prodotte dai sei milioni di abitanti della Regione Lazio in una settimana.
Ma soprattutto la sensazione è che quanto più cresce la dimensione dell’evento tanto più diventano piccole la possibilità di focalizzarsi sui problemi e i risultati finali. Nel 2016, ad uno dei Cop meglio riusciti (quello di Parigi) 195 Paesi si impegnarono collettivamente a ridurre le emissioni del 43% entro il 2030. Nel 2023, quando siamo arrivati alla metà del periodo che separava quell’accordo dal 2030, il valore delle emissioni è aumentato del 7%, invece di diminuire. In questi giorni a Dubai circola una lista di decisioni da prendere fatta di circa trenta decisioni da assumere. Tuttavia, anche sull’unico punto sul quale si registra un accordo - l’istituzione del fondo “loss and damage” che deve compensare i Paesi in via di sviluppo dai danni del cambiamento climatico, quell’accordo lascia intatti tutti i nodi che vanno sciolti prima che il fondo sia operativo.
Cop non funziona perché è espressione di un metodo di governo del mondo (il multilateralismo guidato dalle organizzazioni internazionali) che non funziona più. Non ha senso decidere attraverso negoziazioni senza fine tra 198 Paesi, cercando il consenso di tutti. E alla fine a vincere sono (come per tutti i grandi problemi globali) le leadership politiche più scaltre. Tutte le Cop – dalla ventiseima a Glasgow fino alla trentesima in Brasile – si terranno in Paesi che sono tra i primi quindici esportatori di petrolio. La scelta di Baku, in Azerbaijan, è arrivata per un’edizione che spettava all’Europa orientale e, però, anche su questo va ammessa l’assenza dell’Unione Europea. Potevamo pretendere che fosse Praga o Sofia ad ospitare la prossima conferenza e, invece, ha vinto l’Azerbaijan per ritiro degli avversari.
Non funziona Cop e l’Unione Europea si limita a guardare, a lamentarsi, a dividersi (come è successo, del resto, con la candidatura di Roma ad Expo). È dall’Europa, dall’Occidente che dovrebbe venire un’idea ambiziosa di riorganizzazione del governo mondiale, se ancora siamo remotamente gli eredi di quello che fu l’illuminismo. Di Adenauer e di De Gasperi.
E, invece, nella paralisi di chi ha perso sicurezza e fiducia nei propri valori, vincono quelli che hanno poche idee ma chiare. Idee chiare almeno su quelli che sono i propri interessi. In questo contesto possiamo anche, legittimamente sottrarci ai nostri impegni rimuovendo, persino, i limiti alla circolazione delle automobili Euro 3. È vero non farebbe, ormai, molta differenza rispetto alla battaglia più grande. E, tuttavia, la vera sfida per un continente mai così vecchio, è quella di ritornare ad avere una visione complessiva in un mondo che sembra averci rinunciato. Serve recuperare la fiducia in noi stessi. Serve una generazione nuova che abbia voglia di riprendersi in mano un futuro che ci sta scappando velocemente di mano.
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