Avvocati e ingegneri, gli ucraini lasciano l’Italia: all’estero trovano offerte migliori

Almeno la metà dei 170mila profughi trova un lavoro qualificato in altri Paesi

Avvocati e ingegneri, gli ucraini lasciano l’Italia: all’estero offerte migliori
di Raffaella Troili
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Lunedì 18 Marzo 2024, 00:21 - Ultimo aggiornamento: 19:21

Non manca loro quel che hanno lasciato, mentre fuggivano dalla guerra non c’era più niente di normale e bello della vita di un tempo. Case semi distrutte, ponti impraticabili, mariti al fronte, morti in strada. «Ma il cuore è rimasto lì» in Ucraina, perché nessuno avrebbe scelto di andarsene, se non fosse stato costretto. E molti sono tornati, nelle zone più sicure del loro Paese o hanno scelto altre nazioni, perché nella seppur accogliente Italia un posto diverso dal cameriere e la donna delle pulizie non l’hanno trovato. «Oltre 170mila persone di nazionalità ucraina hanno presentato alla spicciolata domanda di protezione temporanea in questi anni - ricorda Oles Horodetskyy, presidente della Associazione Cristiani Ucraini in Italia, dove risiede dal 2001 - per lo più i primi mesi». 

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«Ma nonostante la grande solidarietà ricevuta, i 300 euro al mese per i primi due mesi, gli alberghi e i centri di accoglienza messi in campo, anche l’ospitalità privata, molti hanno iniziato ad avere difficoltà».

Il senso di straniamento, in strutture decentrate e in condizioni di vita basic, hanno pesato. «Nonostante la grande immensa disponibilità italiana, a molte persone è cominciato a star stretto un ambiente socialmente diverso. Chi al suo paese era un professionista, un avvocato, un insegnante, un ingegnere ha trovato solo piccoli lavori nell’ambito delle pulizie e dei lavori domestici. D’altronde in una condizione precaria, senza nessuno a cui lasciare i bambini, era anche difficile pretendere altro». Così chi non aveva grandi vincoli ha deciso di tornare verso casa o lasciare comunque l’Italia. «Ritengo come minimo la metà. Una grossa fetta è tornata nell’Ucraina occidentale, altri hanno continuato il loro viaggio da rifugiati in altri paesi, come il Canada che ha aperto un programma per profughi ucraini con un visto di 3 anni e agevolazioni sanitarie. Alcuni sono andati in Olanda, anche in Germania e in Inghilterra, moltissimi nella vicina Polonia». 


LA TENSIONE
A pesare, ammette, anche il problema della lingua. «L’inglese è parlato molto di più in altri paesi, dove la possibilità di un lavoro d’ufficio piuttosto che pulire le scale o fare i camerieri o i parcheggiatori, è più praticabile. I miei parenti, per esempio dopo 3 mesi sono tornati a Leopoli, conosco avvocati che hanno trovato modo di sfruttare comunque le loro competenze in aziende, in Olanda e Germania». La barriera linguistica, la difficile integrazione, forzata. «Va ricordato che non si tratta di persone che volevano emigrare, che non hanno avuto il tempo di prepararsi, hanno lasciato i mariti, sono partite con i bambini al seguito». Per questo chi alla fine è rimasto sono proprio le donne con bambini, ospiti di strutture per rifugiati, il solo modo per avere un tetto, che non è poco. «Sono loro a cercare la vera integrazione, con i figli che frequentano le scuole italiane, al massimo seguono online anche le lezioni degli istituti ucraini. Fanno i conti con difficoltà linguistiche e difficoltà burocratiche con i servizi sociali, ma si danno da fare, fanno tutti quello che possono qui in Italia». 


I NUMERI
L’Italia, con circa 175mila rifugiati (dati ministero dell’Interno) almeno all’inizio era al sesto posto in Europa (le regioni che hanno ricevuto più profughi sono state Lombardia, Emilia Romagna, Campania). Il governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza il 25 febbraio 2022, il giorno successivo all’invasione russa. Dalla fine del 2022 lo ha prorogato prima al 3 marzo 2023, poi fino al 31 dicembre 2023, infine il Consiglio Giustizia e affari interni dell’Ue fino al 4 marzo 2025.  Previsti accoglienza diffusa e contributo di sostentamento attraverso nuovi alloggi nei centri Cas del Governo e Sipromi/Sai di competenza locale, sia con lo strumento della cosiddetta “accoglienza diffusa.
 

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