Le statistiche relative alla totalità delle imprese sono disponibili dal 2016, mentre per gli anni precedenti esistono i dati su quelle che hanno almeno dieci dipendenti.
Ma da qualunque angolo si osservi il fenomeno, il risultato è più o meno lo stesso: il 2021 è stato nel nostro Paese l’anno record per il numero di posti di lavoro vacanti. Profili professionali che le aziende cercano ma non riescono a trovare. Nel quarto trimestre dell’anno questo indicatore, che più precisamente misura il rapporto tra le posizioni “vuote” per cui c’è una ricerca e il totale di quelle esistenti, ha sfondato la soglia del 2 per cento (portandosi al 2,1) per le aziende nel loro complesso, con un incremento dello 0,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. Di fatto si è trattato di un raddoppio. La media annuale, che risente naturalmente anche dei precedenti trimestri in cui i valori erano più bassi, si è attestata invece all’1,7 per cento. L’Istat elabora i dati appunto in forma di tassi, per cui non sono disponibili valori assoluti; ma un livello del genere, rapportato al mondo del lavoro dipendente, equivale a qualcosa come trecentomila posti scoperti.
LE CRITICITÀ
In un Paese che continua a scontare una disoccupazione più elevata della media europea, la difficoltà di trovare lavoratori appare a prima vista paradossale. E può venire spontaneo collegarla con un altro fenomeno emerso in tempi recenti, quello dell’aumento delle dimissioni volontarie: tendenza quest’ultima che in realtà è visibile ma meno rilevante di quella analoga registrata ad esempio negli Stati Uniti. Ci sono elementi per dire che la corsa dei posti vacanti riflette un cambio di mentalità dei lavoratori italiani, una revisione delle priorità dopo la tempesta del Covid? Al momento no, ed anzi ha più senso collegare quanto è accaduto con alcuni problemi di fondo del mondo del lavoro nel nostro Paese: dalla generale difficoltà di far incontrare la domanda con l’offerta al (collegato) deficit di formazione. Per capire cosa sta succedendo conviene innanzitutto osservare i numeri un po’ più da vicino. Per rendersi conto che la situazione è abbastanza differenziata. La prima distinzione a cui fare caso è proprio quella tra grandi e piccole imprese: se è vero che la tendenza è visibile in entrambe le fasce, le percentuali più alte relative alla generalità delle imprese (rispetto a quelle con almeno dieci dipendenti) evidenziano che il problema è più intenso proprio nelle piccole. Poi ci sono i dati di dettaglio relativi ai settori: sempre guardando al mondo produttivo nel suo complesso si osserva che l’impennata dei posti vacanti non è uniforme. In alcuni casi non si tratta di sorprese: il 2,7 medio annuo per cento di alberghi e ristoranti sembra corrispondere alle frequenti lamentele degli imprenditori che non trovano personale per queste mansioni. In realtà però la voce “servizi di alloggio e ristorazione” mostrava livelli molto elevati anche negli anni scorsi, a parte l’anomalo 2020: nel 2019 il valore era ancora superiore, e si collocava ben al di sopra del 2 per cento anche nel 2017-2018, in presenza di sussidi meno generosi di quelli attuali (il reddito di cittadinanza ancora non esisteva).