Grecia, vince Tsipras e la questione democratica irrompe sul processo di costruzione europea

Grecia, vince Tsipras e la questione democratica irrompe sul processo di costruzione europea
di Francesco Bilancia *
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Martedì 27 Gennaio 2015, 08:01 - Ultimo aggiornamento: 19 Marzo, 14:36
Da quando i processi di integrazione europea hanno così profondamente intrecciato i nostri destini, molte cose che un tempo avremmo relegato a questione meramente locale assumono, viceversa, un importante peso nei processi politici ed istituzionali comuni agli Stati ed ai popoli europei.



Accade così per le elezioni politiche greche della scorsa domenica, per il sorprendente – per quanto annunciato – risultato che ha portato alla vittoria di Alexis Tsipras.



Le ultime elezioni europee erano state caratterizzate, in pressoché tutti gli Stati europei, da una forte ondata di euroscetticismo e di populismo, alimentati dalla profonda crisi della rappresentanza politica, degli stessi Parlamenti, e dagli effetti della crisi economica sulle vite di moltissimi tra i cittadini comuni.



Per quanto attiene al caso greco possiamo sgombrare subito il campo dal c.d. euroscetticismo. Tsipras non sembra contestare l’integrazione europea, né la moneta unica. La sua visione, piuttosto, contrasta con veemenza le politiche di austerity come antidoto alla crisi finanziaria, e da qui ripartiremo nella nostra breve riflessione.



Per evitare confusioni, è bene quindi sgombrare il terreno da concorrenti proposte populistiche che a bene vedere non sono affatto assimilabili alla esperienza greca. Urlare basta crisi, basta debito! Via dall’Euro! ecc. colloca la discussione su un altro terreno. La banalizzazione dei problemi e la semplificazione delle soluzioni, infatti, sono mero strumento di propaganda elettorale, a volte permanente. Alcuni leaders populisti, appena eletti in una sede istituzionale, invece di lavorare per la soluzione dei problemi continuano con la loro banale propaganda semplicistica. Il proprio lavoro lo intendono così. Ma per affrontare le complesse questioni che hanno concorso a generare l’attuale crisi economica, istituzionale e politica europea non bastano i dibattiti nei talk show.



L’elemento dominante del discorso politico di Tsipras si fonda sulla denuncia del fallimento delle politiche di austerity. Di che si tratta? A fronte delle crisi dei debiti sovrani si confrontano da tempo diverse teorie economiche. E’ ovvio che un’eccessiva esposizione debitoria manda a rischio la stabilità finanziaria degli Stati, ma è altrettanto ovvio che alcune spese – quelle per investimento, ad esempio – sono funzionali a far crescere la produzione, quindi il PIL complessivo su cui è parametrato lo stesso peso del debito.



Con riferimento agli esiti delle politiche di austerità si confrontano opposte scuole di pensiero. Per alcuni esse sarebbero favorevoli alla crescita economica, tanto da qualificarle come expansionary contractions, contrazioni della spesa che generano espansione economica. Per altri, all’opposto, sono generatrici di gravi peggioramenti degli assetti di finanza pubblica. In questa prospettiva si parla, infatti, di self-defeating austerity, di un’austerità che si auto-vanifica. Ora, negli sviluppi delle politiche economico-finanziarie in ambito Ue-Euro tutto sembra comporsi intorno all’infallibilità delle dottrine di austerity. Il taglio della spesa pubblica produrrà senz’altro, nel medio periodo, una crescita del pil, contribuendo alla soluzione di ogni conseguente problema di tenuta del debito e di ripresa economica.



Questa è l’ideologia professata dai trattai europei e dagli atti derivati, dal Fiscal compact e dal Patto di stabilità e crescita. Da qui i vincoli di bilancio, i parametri finanziari, la conseguente austerity, quindi i tagli indiscriminati e crescenti della spesa pubblica, in particolare della spesa sociale, salute, trasporti, assistenza e le riforme pensionistiche. Ed ancora, nella ulteriore prospettiva di rafforzare produzione nazionale ed esportazioni, la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, con la conseguente flessibilizzazione del mercato del lavoro.



E’ l’approccio economicista che, ammesso si fondi su ricette corrette, il che è spesso messo in discussione dalla stessa dottrina economica, dalla storia e dalla statistica, guarda solo ai dati aggregati, ai saldi quantitativi, alle somme. Prescinde dalla sorte delle persone. L’inesorabile economico si traduce in ideologia, poi in fede, e perde di vista il dato umano di cui il diritto, la democrazia, le Costituzioni non possono invece non occuparsi. Per questa dimensione parallela, infatti, conta anche la singola persona, il suo destino, i suoi diritti. Avere i conti in ordine e milioni di disoccupati, di senza tetto, di cittadini al di sotto della soglia di povertà, privi di assistenza sanitaria e di prospettive future non serve, non soddisfa, non è accettabile. Attenzione, non è accettabile neanche come fase transitoria, come dato provvisorio.



La vittoria alle elezioni politiche greche di Tsipras ha questo di interessante sul piano analitico. Testimonia l’irrompere della questione democratica come variabile accidentale a difesa dei diritti irrinunciabili delle persone. Mette in crisi le certezze dogmatiche dell’economicismo, costringe le istituzioni politiche e finanziarie europee, i governi e tutti i cittadini d’Europa a farsi carico di una nuova visione, di nuove strategie, del nuovo rafforzato peso di vecchie questioni fino ad ora eccessivamente tacitate e neglette.



Ma, e qui viene il difficile, cosa dovrà accadere perché realmente cambi qualcosa? Quali passi ulteriori dovranno scaturire dalla vicenda elettorale greca perché il processo di integrazione europea cambi realmente direzione e prospettiva? La questione del debito incombe tuttora, grave e minacciosa. Del debito greco, ora, come in potenza domani del debito italiano, francese o spagnolo. E debito sostenibile significa, cosa ben più preoccupante, accesso a nuovo credito, a nuove risorse finanziarie. Risorse senza le quali qualunque governo si troverebbe, dall’oggi al domani, a non poter più pagare gli stipendi pubblici – compresi quelli dei militari e delle forze di polizia – i trasporti, i ricoveri ospedalieri, il funzionamento delle scuole, ecc.



Nessuno Stato può prescindere oggi da queste risorse, se vuole continuare a garantire ai propri cittadini, nel presente ed ancor più nel prossimo futuro, livelli essenziali di prestazioni nella garanzia dei diritti, prima ancora che di sviluppo economico, culturale e civile. La denuncia del debito pubblico, il rifiuto di pagarne una parte, il consolidamento forzoso o altra decisione unilaterale in ambito finanziario determinerebbe una chiusura degli indispensabili finanziamenti esteri od un incremento proibitivo dei costi dei titoli del debito pubblico.



Per tornare alle grida populistiche, soluzioni di questo genere rientrano tra le cose che, per quanto brandite nei talk show, in realtà non si possono fare. Come le soluzioni economiciste, anche quelle di questo tipo avrebbero il difetto di guardare soltanto ai dati aggregati e non alle singole persone. Nessuno governo, neanche il Governo Tsipras che ha appena giurato, può ignorare gli effetti finanziari delle proprie decisioni, se non propagandi un’irrealistica autarchia.



Qui sta la differenza tra i populismi e la democrazia. Nel misurarsi con la complessità della vita reale. Le elezioni greche hanno avuto la grande forza di riportare sul tavolo delle istituzioni d’Europa la questione della democrazia. Si apre uno scenario insperato, che esorcizzando la paura dell’ignoto potrà costringere a prendere sul serio la questione dei diritti dei cittadini come elemento genetico della costruzione europea e chiave di volta dei futuri processi di integrazione. Le istituzioni finanziarie europee guardano con attenzione e timore al nuovo governo greco. Sperano nella ragionevolezza delle richieste del nuovo governo. Ma cosa hanno da offrire in cambio? Quale ragionevolezza dobbiamo invece aspettarci dalle istituzioni finanziarie e di governo europee? E dai governi degli altri Stati?



La vittoria di Tsipras da oggi all’Europa la chance di un ritorno della politica come strumento di governo dei processi di integrazione europea. Governo di questioni estremamente complesse. Attengono alla tenuta finanziaria dell’Europa, da un lato, e alla vita delle persone, dall’altra. Serviranno importanti riforme. A differenza dei dogmatici economicisti e dei populisti urlanti non ci sono ricette semplici. Servono analisi, disponibilità al negoziato, processi di sintesi e reciproche concessioni.



Una volta tanto dire che ce lo chiede l’Europa può avere un significato nobile, che affondi le proprie radici nella storia, nella cultura, nella civiltà del diritto e nella spinta umanistica del progresso tecnologico e scientifico. Ce lo chiedono i cittadini europei. I nostri concittadini greci, per il momento. Non sciupiamo questa occasione, non regaliamo un ennesimo fallimento ai populismi più beceri.





* Professore ordinario di diritto costituzionale – Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara