L’inchiesta/ Il sindacato
che non tutela i più giovani

L’inchiesta/ Il sindacato che non tutela i più giovani
di Oscar Giannino
6 Minuti di Lettura
Domenica 29 Aprile 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 30 Aprile, 14:40

«Che tra gli operai delle fabbriche del nord iscritti alla Cgil ci fosse chi votava Lega lo sapevamo da tempo, la novità è che c’è un’altra quota di nostri tesserati che non si astiene più e vota per i Cinque Stelle». Parole di Susanna Camusso, quattro giorni dopo le elezioni politiche. E ci sono istituti di ricerca che si sono spinti a dire che fino al 40% degli iscritti Cgil potrebbero aver votato Cinque Stelle, e oltre il 10% per la Lega. Parole e numeri che confermano quanto ieri ha scritto su queste colonne Luca Ricolfi: nell’affermazione dei movimenti populisti che della narrazione “anticasta” hanno fatto il proprio cavallo vincente, il sindacato sembra costituire eccezione alla crisi generale dell’establishment politico, imprenditoriale e finanziario della seconda Repubblica. 

LE CONVERGENZE
Se però cerchiamo di mettere a fuoco le ragioni di questa rilevante eccezione, i dati a disposizione sembrano indicare una convergenza largamente inintenzionale, non figlia di una strategia deliberata ma di alcune caratteristiche che appaiono da anni debolezze essenziali del sindacato. Cominciamo dal peso dei pensionati. Premettendo che, come sempre, sui numeri degli iscritti ai sindacati bisogna sempre esprimere un dubbio: le cifre delle confederazioni, dell’Inps e di Eurostat non convergono mai.  In ogni caso se si sta alle cifre delle diverse sigle sono oltre 7 milioni i pensionati con una tessera sindacale: ed è una cifra abbastanza incredibile, visto che sarebbero oltre 4 su 10 dei pensionati totali in Italia. Oltre 3 milioni quelli dichiarati dalla Cgil, 2 milioni dalla Cisl, oltre 600 mila dalla Uil. Nel caso della Cgil significa più di un iscritto su due, per la Cisl più di 2 su 5, per la Uil più di 1 su 5. 

GLI SQUILIBRI
Il peso crescente dei pensionati sugli iscritti sindacali (erano meno di 3 milioni 30 anni fa) è una debolezza e non una forza del sindacato. E sembra stridere con una delle fondamentali caratteristiche che genera consenso al populismo: cioè il fatto che l’Italia ha un welfare non per giovani ma per anziani, con oltre il 70% della spesa sociale destinata agli over 55enni, a cominciare da oltre 15 punti di Pil erogati annualmente in pensione e assistenza dall’Inps. Sono le famiglie guidate dagli under 35enni ad aver perso negli anni di crisi verticalmente stock patrimoniale, mentre quelle con capofamiglia un over 65enne ne hanno guadagnato, stante la perdita verticale media del reddito pro capite. Ciò malgrado l’autopercezione tra gli anziani di questa condizione di vantaggio rispetto ai giovani manca in Italia, e spiega probabilmente l’effetto psicologico dell’orientarsi verso chi promette ancor più tutela a chi pure ha perso meno.

Se dai pensionati ci spostiamo ai 40-50 enni, ecco emergere invece una condizione che spiega bene i consensi degli iscritti sindacali ai populisti. Spigolando tra i dati dichiarati per gli anni 2016 e 2015, si scopre che gli iscritti ai tre maggiori sindacati con età inferiore ai 35 anni sono meno di 1 su 5 rispetto al totale, il 16% in Cisl e il 19% in Cgil. La Uil non fa eccezione, anche se dichiara un terzo dei suoi iscritti tra gli under 45enni per non mostrare che quelli sotto i 35 anni sono meno di 1 su 5. Questa sia pur approssimativa ripartizione del popolo sindacalizzato per coorti anagrafiche aiuta a spiegare perché le simpatie politiche vadano a chi ha promesso di “rottamare” la legge Fornero, sui requisiti minimi anagrafici e contributivi per ottenere l’assegno della pensione. 
La terza debolezza sindacale sembra invece fare a pugni con il consenso ai populisti. Cioè la pressoché totale assenza del sindacato tra i lavoratori della gig-economy, quelle centinaia di migliaia di persone di cui in Italia e non solo in Italia manca ancora la definizione giuridica e contrattuale, tutti coloro che collaborano al successo travolgente di piattaforme che offrono beni e servizi mediati da una app e da un device digitale: imprese e lavoro che mettono in crisi ogni classica definizione dei requisiti giuridici attraverso i quali definire coi vecchi criteri il lavoro dipendente distinguendolo da quello autonomo. Un’aporia non sciolta neppure dal Jobs Act e dal successivo Statuto del lavoro autonomo dovuti al governo Renzi. 

In Italia come altrove, l’assenza di legislatori e giuslavoristi adeguati a comprendere questa nuova dimensione della modernità – e dire che Marco Biagi a questo pensava già nel 2001, col suo Statuto dei Lavori che superava la vecchia dicotomia – spinge il più del sindacato a credere che i gig workers vadano semplicemente inglobati nelle vecchie gabbie del lavoro dipendente e dei relativi diritti, stabiliti nell’era fordista. Paradosso del paradosso: rimpiangere quando si stava peggio. L’idea di una libera cooperazione non dipendente, a cui abbinare però con contrattazioni azienda per azienda livelli adeguati di copertura sanitaria, previdenziale e assicurativa, non è entrata ancora nella testa delle confederazioni. Ed è una peculiarità conservatrice che si ritrova letteralmente nelle piattaforme dei movimenti politici populisti: favorevoli ai dazi, ostili alle multinazionali digitali, propensi a bollare come “precariato da bandire” ogni nuova forma di nuova occupazione digitale presentata come forma di sfruttamento da parte di chi non paga tasse in Italia, disintermedia il commercio di vicinato, o spiazza vecchio carrozzoni come Alitalia o vecchie regole come quelle relative a taxi e autonoleggi.

IL RITORNO ALLO STATO
E infine veniamo alla quarta caratteristica, quella che celebra l’allineamento vero: l’invocazione dovunque e comunque di nuovi interventi dello Stato, il ritorno a banche pubbliche con allocazione di credito decisa da politica e sindacato insieme, massicci interventi redistribuitivi senza per questo ridiscutere le centinaia di eterogenei e sin qui dispendiosissimi e ma inefficaci strumenti di assistenza dispensati a livello centrale e dalle Autonomie. Su questo non c’è molto da aggiungere: basta vedere come i Cinque Stelle, laddove governano localmente, abbiano immediatamente stretto un patto con i sindacati delle aziende pubbliche che vanno male o malissimo, invece di anteporre i diritti di milioni di cittadini a un servizio adeguato, vieppiù rispetto alla crescita delle tariffe e tasse locali.
Certo, non tutto il sindacato è così, è ingiusto generalizzare.

La Fim Cisl di Marco Bentivogli ad esempio è un’eccezione, basta leggere il libro del suo leader - “Abbiamo rovinato l’Italia?”, titolo che dice tutto – per trovare ricette che su ciascuno di questi punti parlano tutt’altro linguaggio: non ostile alle tecnologie, contrario a tassare i robot, indisponibile a scambiare i privilegi di alcuni per “diritti acquisiti”, determinato a tornare a un’idea di sindacato anche come soggetto educatore, con molto meno Piketty e molto più don Milani, e sana cultura della contrattazione aziendale della produttività e del welfare aziendale. Non è un caso, che in vicende come Embraco e Amazon o Ilva, o sulle raffiche di scioperi locali nel trasporto pubblico o sugli abusi della legge 104 Bentivogli sia quasi sempre l’unico ad andare controcorrente. La sfida delle “tre erre”, la chiama Bentivogli: quella di idee nuove che siano radicali, rifondative e rigenerative. Sa Dio se ce n’è bisogno, per uscire dalla grande alleanza tra vecchio sindacato e nuovi populismi descritta ieri da Ricolfi. 

(1 - continua)

© RIPRODUZIONE RISERVATA