Elogio di Roma e dei suoi taxisti

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Sabato 30 Luglio 2016, 16:44
Elogio di Roma e dei suoi taxisti (in nome e per conto del mio smartphone).

Stasera a Roma, Piazza Cavour, intorno alle 18 prendo un taxi che mi deve portare a Largo Argentina. Non è lontano, mi rendo conto. Ma è molto caldo e sono stanco. Non mi va di camminare. Lungo il tragitto mi godo il fresco della climatizzazione e mi guardo intorno come faccio sempre, perché trovo Roma bellissima. Arrivati a Largo Argentina il taxista accosta al volo alla stazione taxi che si trova lì. Non può fermarsi perché ci sono molti altri taxi in attesa. Io raccolgo su in fretta le mie cose, pago la breve corsa, scendo, saluto e chiudo lo sportello. Giusto il tempo di vedere defilarsi con la coda dell’occhio l’auto che mi ha trasportato sin lì e di rubare un momento di sole. Ma subito mi ricordo che devo fare una telefonata urgente.

Ecco, appunto: il telefono. Il telefono è rimasto sul taxi. Insieme a metà della mia vita virtuale. Lì, immobile. Alla mercé di tutti. Sul sedile o ! sul tappetino posteriore. Silenziato, per di più, così nessuno lo sentirà se lo chiamo. I miei quasi 1000 contatti, gli appunti, gli sms, i whatsapp, le mail, le mie note e la lista dei memo personali, centinaia di foto, musica e quant’altro fa parte di me tramite quel telefono, è sfilato via in un attimo dall’angolo del mio occhio insieme a quell’anonima auto bianca. Eh sì. Perché io ero stanco e, dunque, non ho memorizzato, né il numero, né la compagnia del taxi in questione. Sbianco.

Adesso come faccio? Ma certo, che stupido, provo a chiamarlo. La mano mi corre alla tasca. Ma come si potrà comprendere bene, è impossibile chiamare un telefono che si è perso, proprio per il fatto che lo si è perso e non se ne ha un altro subito lì a disposizione. Un taxista fermo al parcheggio mi nota e mi chiede se c’è qualcosa che non va. Io, fiducioso, gli racconto l’accaduto e gli chiedo se può mandare un messaggio alla centrale per fare diramare una richiesta sul mio povero telefono. In fondo – gli dico - la corsa era breve ed era di soli cinque minuti prima. Lui mi guarda con l’aria tra il solidale e il sornione nella quale solo a Roma capita di imbattersi e mi dice che qui ci sono molte compagnie di taxi tra loro del tutto autonome. Bisogna chiamarle tutte. E ci sono pure i privati che la radio proprio non ce l’hanno. E aggiunge, infine, che il rischio vero è che qualcuno salga a bordo dello stesso taxi dove il mio telefono giace e se lo prenda, zitto zitto.

Comincio a visualizzarlo, quell’apparecchio, ad umanizzarlo. Penso che, magari, si sentirà solo e perso, proprio come me in quel momento. Il taxista comprende la mia ansia montante e si offre di telefonare per me. Anzi, mi dà il suo telefono. Comincio a chiamare il mio cellulare, inutilmente; poi le compagnie di taxi di cui vedo i numeri stampigliati sulle portiere delle auto bianche lì in giro. Nel frattempo si avvicinano altri taxisti e tutti a chiedere e telefonare! Ma niente. Non arriva risposta. Ringrazio tutti quegli autisti che, senza avermi mai visto, mi stanno aiutando e tifano evidentemente per me. Uno di loro continua a chiamare addirittura dopo che me ne sono andato, come verrò a sapere poco dopo.

Corro in albergo. E’ una sensazione strana non sentire il peso nella tasca del mio telefono. Una cosa fisica. E poi: come farò adesso a ricostruire tutti questi anni di vita chiusi lì dentro? Quanti ne perderò inesorabilmente? Avrò fatto un backup recente? Reggerà la password a eventuali intrusioni? Arrivo nella stanza d’albergo. Mi connetto con il portatile a Google device, cui ho sempre collegato tutti i miei dispositivi, sia perché consente di localizzarli (ma io, ahimè, non ho attivato la localizzazione), sia perché consente di inviare uno squillo molte forte anche se il telefono è silenziato come nel mio caso, sia, infine perché mi consente la soluzione finale, cancellazione e blocco: il mio geniale telefono trasformato in un inutile pezzo di plastica. Ma è un’ipotesi che per il momento non considero neppure.

Nel frattempo chiamo mia moglie con il tab che ho con me (ma non avevo prima) e si mette a telefonare anche lei. Lancio tre o quattro squilli con Google, e frattanto chiamo, chiamo e chiamo. Sto per perdere la speranza e la freccia del mouse indugia sull’icona “cancella”, ma è una decisione faticosa da prendere. Con il telefono, io, ci lavoro e non poco e lì dentro c’è buona parte della mia memoria. All’improvviso il taxista mi risponde e, dopo un breve colloquio, mi riporta il telefono alla stazione dei taxi di Largo Argentina, dove lo accoglie la mia profonda, deferente e sincera gratitudine.

Morale: il mio telefono è di nuovo con me. Smart come non mai. Pronto per un backup (che sto facendo) e un cambio di password. Ed è così grazie all’onestà ed alla solidarietà di persone che, in fondo, potevano benissimo fregarsene altamente. Ho anche richiamato il taxista che mi aveva prestato il cellulare (e che, scorrendo la lista delle chiamate, mi accorgo che ha anche continuato a chiamare dopo che l’ho lasciato). E’ davvero contento e mi dice che Roma e i suoi taxisti sono diffamati da una minoranza di persone marce, ma che fusto e radici sono sane. In effetti ho sempre pensato che questa cosa è vera. Comunque sia, fatemi un favore: non parlatemi mai più male di Roma e, soprattutto, dei suoi taxisti.

Luca Lucenti


 
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