Vermeer alle Scuderie del Quirinale
Il secolo d'oro del maestro della luce

Johannes Vermeer, Ragazza con il cappello rosso
di Fabio Isman
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Giovedì 27 Settembre 2012, 17:30 - Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 17:00

ROMA - Chiss chi era questo pittore unico e sublime, di cui non sappiamo quasi nulla; chiss come sbocciato questo Jan Vermeer (1632-75) di cui, la prima volta in Italia e tra le poche al mondo, possiamo vedere otto dipinti in una mostra, alle Scuderie del Quirinale, da oggi al 20 gennaio (un evento che ieri ha creato lunghe file davanti alle Scuderie per prenotare gli ingressi all’inaugurazione odierna); chissà come ha fatto questo uomo di Delft, 52 artisti su 25 mila abitanti, a «farci percepire i sentimenti delle sue piccole figure femminili», come dice Sandrina Bandera che dirige la pinacoteca di Brera a Milano; a riempire di simboli i suoi raffinati microcosmi; ad inventarsi quella luce, mentre «ci racconta un mondo per noi assolutamente ignoto» (lo afferma Rossella Vodret, soprintendente di Roma).

Se lo deve essere chiesto pure il primo visitatore di questa esposizione, che certamente ne calamiterà tantissimi: di mattina, arriva il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che per 45 minuti, ben più di quanti ne preveda il cerimoniale, si fa spiegare tutto, dialogando con lui in perfetto inglese, da uno dei curatori, Arthur Wheelock della National Gallery di Washington. Con Bandera è Lorenzo Ornaghi, il ministro dei Beni culturali; e c’è anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Chi c’era, racconta di un Presidente veramente coinvolto; quasi commosso davanti a un quadretto grande una spanna, La ragazza con il cappello rosso della National di Washington, cui all’ultimo momento, come logo dell’esposizione, è stato preferito un altro capolavoro, che sconvolge, e apre questa rassegna: La stradina del Rijksmuseum di Amsterdam, uno dei rari esterni di Vermeer.

Gli otto suoi dipinti sono sparsi in mostra, quasi uno ad ogni sala (ed è meglio così); sono accerchiati da altri 49 piccoli formati di artisti coevi, spesso nemmeno tanto inferiori al protagonista, come Pieter de Hooch, o Gerard ter Borch, i più simili al maestro di Delft. Impaginati che sembrano libri Adelphi, sopra il nome dell’autore e il titolo dell’opera. Qui, si respira davvero un afflato domestico, pieno «di serenità, dopo 80 anni di guerre in Europa e in Olanda, l’ultima durata trenta», come spiega Mario De Simoni, direttore generale di Palaexpo; con la presidente Daniela Memmo, aveva ricevuto Napolitano. In Italia, otto Vermeer vicini non si erano mai visti; in attesa di quelli dei visitatori (70 mila già prenotati), De Simoni fa il conto dei rari precedenti: «Dal 1935, solo sei mostre, tutte di musei che hanno altri dipinti da concedere in cambio, e noi no, hanno avuto almeno cinque suoi quadri; uno più di noi solo il Prado, nel 2003».

Massimo Vitta Zelman, che pubblica il catalogo Skira, chiosa: «Applicando la medesima percentuale a Picasso, poiché l’intero opus di Vermeer è di 35 quadri, significherebbe allinearne 4.200 suoi». A vedere questo bendiddio all’inaugurazione, sono accorsi anche i ministri Fornero, Cancellieri, Severino. Dell’artista, spiegava Pietro Citati, non c’è «una lettera, una pagina di appunti, un disegno, un ritratto»: il dono della sublime bellezza venuto dal nulla; in compenso, c’è qui, bel quadro, l’Autoritratto di Carel Fabritius, che gli fu forse maestro: il miglior allievo di Rembrandt.

Perché in «Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese» passa un mondo: due decenni davvero d’oro della pittura; Gerrit Dou, Gabriel Metsu, o Michiel Sweerts; quadri da 13 Paesi, 32 prestatori tra cui la regina Elisabetta; 650 milioni d’euro d’assicurazione. I prezzi più alti, per le tele di Vermeer: donne al virginale o che suonano il liuto; tra 10 giorni, quella con un bicchiere di vino giungerà dalla Germania. Ci sono, dice Caternia Cardona che, aiutata da MondoMostre ha organizzato la rassegna, anche due rare tele cattoliche: la Santa Prassede, e alla fine l’Allegoria della Fede.

Perché lui nasce protestante, ma si converte nel 1653, per sposare una cattolica (lo era un quarto di Delft), che gli darà 11 figli. La spugna di Prassede lava il sangue dei martiri; è accanto al quadro che l’ha ispirata, di Felice Ficherelli, detto il Riposo, toscano del Seicento: la sua opera non è il massimo; quella di Vermeer, firmata eppur discussa, forse nemmeno: meglio la parte inferiore che il volto; a Ficherelli, l’olandese aggiunge un crocefisso tra le mani.

Nell’Allegoria, la Fede tiene il mondo, un globo, sotto il piede; davanti, una mela sbocconcellata: a memoria di Eva. Chissà: il nostro voleva magari riscattare il suo passato? Perché gli altri quadri suoi o coevi, sono lontani mille miglia dall’arte che allora conoscevamo noi. In due, indisturbato, un cane fa perfino pipì in chiesa. Un altro mostra le tele che erano nelle case: Cupido e paesaggi. Una servente dà una frittella al cane: chi, nella Roma Barocca, nella Francia trionfale, l’avrebbe mai eternata? Il terzo curatore, Walter Liedtke del Met di New York, ci racconta l’umile atelier di Vermeer: assi di legno, niente tappeti a terra, poche tele e stampe, «cianfrusaglie che non vale la pena di elencare», dice l’inventario. Già: chissà davvero come avrà fatto.

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