Gianni Berengo Gardin, la retrospettiva a Venezia: «La mia Italia che non c'è più»

Gianni Berengo Gardin, la retrospettiva a Venezia: «La mia Italia che non c'è più»
di Maria Grazia Filippi
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Venerdì 1 Febbraio 2013, 11:58 - Ultimo aggiornamento: 12:09
Si definisce un manovale della fotografia. La prima l’ha scattata a Lugano, quando faceva il cameriere. L’ultima ancora lontana. La fotografia la mia benzina. Quando c’ da fotografare, io corro.

Gianni Berengo Gardin - «non mi chiami artista, la prego. Tantomeno maestro. Non lo sopporto» - è ancora oggi quello che ha scelto di essere cinquanta anni fa: «Semplicemente un testimone della mia epoca». Una testimonianza lunga 82 anni, circa 300 mostre personali in Italia e all’estero, oltre 200 volumi fotografici pubblicati, collaborazioni prestigiose, da Il mondo di Pannunzio al Touring Club italiano, premio World Press Photo nel ’63, laurea honoris causa in Storia e Critica dell’Arte presso l’Università di Milano nel 2009, Ambrogino d’oro nel 2012. Le sue immagini in bianco e nero fanno parte delle più prestigiose collezioni di musei e fondazioni tra cui il Museum of Modern Art di New York.



Oggi a celebrarlo sarà la sua città d’elezione, Venezia, con una retrospettiva da 130 foto alla Casa dei Tre Oci. L’Italia, in questi cinquant’anni di scatti, è cambiata sotto i suoi occhi. Lui l’ha osservata e restituita in migliaia di immagini che oggi sono un resoconto fedele e impietoso di un Paese che, con i decenni, «è cambiato moltissimo, nel bene e nel male».



Preferiva l’Italia di ieri o quella di oggi?

«Non so giudicare. Ma penso che ci dobbiamo ridimensionare. Tutti. Certo tutti, meno gli operai o chi ha tirato la carretta fino ad oggi. Ma noi, borghesi e piccoli borghesi, abbiamo fatto il passo più lungo della gamba. Pretendiamo troppo dalla vita senza saper dare niente indietro».



Il cambiamento avvenuto sotto i suoi occhi che l’ha colpito di più?

«Il senso del pudore. Quando comincia io, negli anni ’50, in Italia era vietato baciarsi in pubblico. Era considerato oltraggio al comune senso del pudore. Me ne andai a Parigi per un paio d’anni. E lì non facevano che baciarsi come disperati. Rimasi ubriacato da questa libertà e divenni bacio-dipendente. Poi il senso del proibito cambiò anche da noi. Ora il bacio è super inflazionato, nessuno ci fa più caso».



L’Italia dei manicomi. Lei fu il primo a raccontare i luoghi dell’orrore che la legge Basaglia avrebbe abolito. Cosa ricorda?

«Lo shock. Entrare e trovare persone legate nei letti, oppure strette dalle camice di forza. La disperazione dei loro occhi. Basaglia fece una rivoluzione già togliendo le sbarre alle finestre. Mi sentii il testimone di un passaggio epocale».



“La disperata allegria. Vivere da zingari a Firenze” e “Zingari a Palermo” furono reportages pluripremiati. Le crearono problemi?

«Si, mi feci un sacco di nemici. Perché raccontai di una gente straordinaria. Grandi poeti e musicisti. Gli italiani erano, e sono, pieni di pregiudizi. Certo, alcuni zingari rubano. Ma perché, i politici non lo fanno?».



Mai foto per politici e vip?

«Mai. Ho fotografato solo amici. Renzo Piano e Dario Fo, ad esempio. Ma non erano foto ufficiali e non le utilizzai mai per lavoro».



In mostra un’ampia sezione è dedicata agli interni delle case italiane. Cosa cercava?

«Volevo raccontarle come nessuno aveva mai fatto. Non volevo descrivere gli arredamenti ma chi le abitava. Ci misi dei mesi. C’è una casa, a Napoli, che a seconda delle ore si trasformava: camera da letto la notte, cucina a pranzo e negozio di scarpe durante il giorno».



Come faceva ad entrare in momenti così intimi?

«Dovevo superare molta diffidenza. I poveri pensavano sempre che gli stessi tirando un bidone. I ricchi non volevano mostrare le loro ricchezze per paura dei ladri. Quando non ci riuscivo da solo, mi aiutavano i compagni delle sezioni PCI o dei sindacati».



Lei ha realizzato reportage e monografie aziendali per raccontare il mondo del lavoro. Come è cambiato?

«Il lavoro è pesante anche oggi. Ma forse rispetto ad allora è aumentata la sicurezza e la qualità del luogo. C’era meno protezione, anche sindacalmente».



Intanto il paesaggio italiano si trasformava sotto i suoi occhi. Cosa ne è rimasto?

«Lo abbiamo assassinato. Senza rendercene conto. Guardi Venezia. Una città violentata, stuprata. Ridotta a bazar. Uno sfacelo. E le autorità non fanno nulla per fermare questo degrado».



In Calle Larga c’era il negozio dei suoi genitori. Che effetto le fa vederci un bar?

«Io non amavo vendere perle e collane di vetro. Appena potevo scappavo a fare fotografie. Certo, vedere tradizioni che scompaiono fa male».



Qual è la fotografia perfetta?

«In bianco e nero, in pellicola e destinata alla carta stampata. Tutto il resto è un’altra cosa».
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