Tabucchi, notturno con passione: in libreria il ricordo dello scrittore

Tabucchi, notturno con passione: in libreria il ricordo dello scrittore
6 Minuti di Lettura
Sabato 15 Settembre 2012, 09:16 - Ultimo aggiornamento: 16:07
IROMA - l 24 settembre Antonio Tabucchi avrebbe compiuto 69 anni. In omaggio al grande scrittore, scomparso nel mese di marzo, la casa editrice Cavallo di ferro pubblica un libro in cui Paolo Di Paolo, Dacia Maraini, Romana Petri e Ugo Riccarelli lo ricordano con testimonianze e conversazioni intessute di affetto e nostalgia: Una giornata con Tabucchi (120 pagine, 12,90 euro). Anticipiamo il testo di Dacia Maraini.



di DACIA MARAINI

«HO pena delle stelle / che brillano da tanto tempo», scriveva Pessoa. E mi sembra di sentire la voce di Antonio Tabucchi, lontana e piena di echi. Lui aveva letto quelle parole quando ancora in Italia nessuno le aveva mai viste, e se ne era innamorato. «Ho pena delle stelle». Da quella pena derivava la pena per gli esseri umani che faticano e sudano e quando si sdraiano per riposare, sollevano la testa cercando un punto fermo. Le stelle. Ma forse le stelle sono stanche come gli esseri umani. «Non ci sarà una stanchezza / delle cose / di tutte le cose / una stanchezza di esistere / di essere? / Non ci sarà / per le cose che sono / non dico la morte, bensì / un’altra specie di fine / o una grande ragione / qualcosa così, come un perdono»?



Bellissima poesia che ho ascoltato dalla voce di Antonio Tabucchi e che mi torna alla memoria adesso, sapendo che non potrà più aprire gli occhi per guardare quelle stelle stanche di una stanchezza tutta umana che lui conosceva bene: la stanchezza di esistere in un mondo avido, stupido e volgare. E cercava – ma anche noi cerchiamo con lui e con Pessoa – un’altra specie di ragione. Forse «una grande ragione». Qualcosa come un «perdono del tempo». Strano contraddittorio scrittore, il nostro Tabucchi, così attratto dal mistero e dall’indicibile – di qui il suo amore per Pessoa – e nello stesso tempo così attento ai mali del suo tempo, così pronto a indignarsi, a criticare.



Ma questa contraddittorietà appartiene alla nostra epoca, esprime un dubbio esistenziale che Tabucchi ha raccontato meglio di tanti altri: consapevole fino allo spasimo dell’artificialità della scrittura: «Il poeta è un fingitore / finge così completamente / da arrivare a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente» (parole di Pessoa), ma profondamente fiducioso nella potenza effettiva di quella inane artificialità. Ricordo le emozioni provate alla lettura di un libro dolente come Piccoli equivoci senza importanza. Ricordo l’andante mosso di uno splendido racconto in cui si narra di un gruppo di amici che sono stati uniti da ideali comuni e si trovano, dopo una decina d’anni, impigliati nei disastri di vite lontane, chiuse dentro ruoli che non avevano previsto, l’uno in guerra con l’altro, mentre la ragazza amata viene operata di cancro al seno.



Sostiene Pereira è stato un altro regalo che ha fatto ai suoi lettori. E per una volta la versione filmica di Faenza, con Mastroianni, non è stata da meno del romanzo. Quel lento e impaurito Pereira che parla con il ritratto della moglie, che beve continuamente limonate, che piano piano, con le movenze di una lumaca stanca, tira fuori la testa dal suo guscio, per trovare un coraggio che non si conosceva, ci ha commossi.

Ricordo la prima volta che ho letto un suo libro. Si trattava di Notturno indiano. Edizione Sellerio. Copertina blu su cui spiccava l’immagine chiara di un interno indiano. Ho cominciato con curiosità prima e con gioia crescente dopo: non è facile trovare dei libri che ti prendano per i polsi e ti trattengano fino alla fine, facendoti affrettare il respiro.



Era una delle sue storie notturne che avrei imparato ad amare. Non a caso le parole notte e notturno tornano spesso nei suoi libri. Le tenebre insonni dei suoi racconti si trasformano facilmente in città misteriose, abitate da morti inquieti e vivi in cerca di pace. Come nel teatro No giapponese, spesso Tabucchi metteva in scena i morti e questo dà alle sue pagine una consistenza arcana e dolorante. Eppure non sono morti nemici quelli che descriveva, non sono morti che fanno paura, né morti che si lamentano o che protestano: i morti delle sue città notturne sono struggenti, hanno qualcosa di materno e nello stesso tempo di estremamente vulnerabile, si sporgono dai loro balconi lontani come per dirti qualcosa che avevano dimenticato di raccontarti in vita, qualcosa di enigmatico e di tenero.



Mi piaceva nel Notturno indiano quel girovagare del personaggio, su e giù per le strade di un Paese sconosciuto e ostile anche se festosamente accogliente. Mi piaceva il puntiglio dell’autore nell’elencare i luoghi: un albergo miserabile di Bombay, la sede della società teosofica di Madras, la Victoria Station, una strada di Goa, eccetera. Come Tabucchi scriveva nella nota di prefazione, quei luoghi li aveva percorsi con le sue scarpe e i suoi occhi hanno visto quello che poi vedrà il suo personaggio. Ma che cosa cercava il suo uomo notturno in una India devastata e minacciosa?



Apparentemente segue le orme di un amico, forse solo un conoscente, che si è perso tra Bombay, Madras e Goa. Per trovarlo, il nostro protagonista si infila in stradine fatiscenti, percorre i corridoi di un ospedale mefitico, viaggia su treni antidiluviani, prende autobus e taxi, mangia in trattorie puzzolenti ma anche in ristoranti di lusso. Sembra che l’altro faccia di tutto per sfuggire all’incontro, sebbene lasci sempre delle tracce riconoscibili dietro di sé.



Alla fine ci chiediamo se questo viaggiatore accanito e distratto non stia cercando Godot, come il surreale personaggio di Beckett. Non un dio-giudice austero e riconoscibile, con tanto di barba e aureola, ma quell’arbitro severo di cui a volte sentiamo il fiato caldo sulla nuca.



Nel libro invece si dà una interpretazione diversa del viaggio indiano del protagonista. L’uomo cerca se stesso, scrive l’autore, e quando pensa di averlo trovato, scopre che in fondo non gli importa niente di incontrarlo. Succede proprio sulla terrazza di un ristorante di lusso di Goa, in una serata di luna piena, tra le palme, e i bicchieri di vino scintillante, quasi dentro un sogno esotico e un poco provinciale. Il narratore vede, seduta a un tavolo non lontano, la persona che stava cercando, proprio lui, l’uomo che gli sfugge da mesi e per cui tanto ha penato.

Ma nello stesso momento, con un rapido e inaspettato scambio di prospettiva, ci rendiamo conto che non stiamo più nei panni del protagonista narratore ma del personaggio che scruta a sua volta con occhi disincantati e ironici l’autore, seduto a una tavola nella stessa terrazza, sotto le palme.



Lo vede mangiare conversando con una bella sconosciuta, proprio come sta facendo lui. La misteriosa commensale gli sta chiedendo come andrà a finire il romanzo che lui le sta raccontando. Forse proprio così: con un ribaltamento dei punti di vista: l’autore sarà allontanato con un effetto di cannocchiale rovesciato e il personaggio lo osserverà con curiosità distaccata. Il libro non può che finire così, con un gioco di specchi. È l’India stessa che suggerisce questa scomparsa del corpo, per lasciare al suo posto una impronta fugace, un’ombra luminosa.



Ricordo perfettamente che quando ho letto Notturno indiano ed era il 1984 ancora non conoscevo Antonio Tabucchi. Non sapevo nemmeno come era fatto. Poi, ecco, lo vedo nella mente al tavolo di un ristorante senese, beviamo vino rosso parlando di libri. Ma subito un’altra immagine si sovrappone alla prima: siamo a Firenze, a casa sua, e accanto a lui c’è Zé, come la chiamava, Maria José, la sua bellissima e saggissima moglie portoghese. E poi ancora a Pisa, e di nuovo a Firenze con sua figlia. Intanto imparavo a riconoscere la cantilena della sua voce arrochita dal fumo, le sue risate contagiose, imparavo la sua ingordigia di sigarette che metteva a disagio una non fumatrice come me, imparavo le sue passioni civili. Su queste passioni ci siamo scoperti molto vicini.

Addio caro Antonio. Te ne sei andato troppo presto. Ma i tuoi libri rimangono con noi e sono sicura che non finiranno mai di incantarci.
© RIPRODUZIONE RISERVATA