Totti, De Rossi e Balotelli:
40 scrittori raccontano il campionato

Totti, De Rossi e Balotelli: 40 scrittori raccontano il campionato
di Matteo Nucci
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Sabato 30 Giugno 2012, 09:22 - Ultimo aggiornamento: 16:25
Se il calcio, come scriveva Pasolini, (ancora) l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, il campionato la sua liturgia. E proprio in questi giorni in cui Balotelli, Pirlo e De Rossi con la maglia della Nazionale rubano spazio alla Merkel e a tutte le notizie di cronaca, esce in libreria C’ un grande prato verde, 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011/12 a cura di Carlo D’Amicis (edizioni Piero Manni, 224 pag. 14 euro). Un romanzo collettivo, quasi un diario multiplo in cui gli autori si alternano per raccontare tutte le giornate del torneo calcistico, il campionato pi bello del mondo.

Pubblichiamo il testo integrale del racconto di Matteo Nucci




QUEST’ANNO ho deciso di chiudere con il calcio.

La decisione l’ho presa in un pub di via Madonna de’ Monti, a Roma, dopo una quindicina di minuti della prima partita del campionato. Ma tutto risaliva a Madrid. Nel pub romano, lì per lì, non l’ho spiegato a Sergio, che è stato il mio mèntore calcistico per vent’anni. Mi sono alzato, gli ho chiesto scusa, ho borbottato che non ce l’avrei fatta, che era la solita Roma di sempre e che me ne andavo e che quest’anno non ne volevo più sapere. Lui, da vero romanista, ha capito o ha finto di capire. Seguire la Roma è una sofferenza, un incubo, una tortura. Si soffre prima, si soffre dopo, si spreca troppo tempo a soffrire, troppa parte della settimana a soffrire.

Ma non era la Roma, in realtà. Tutto risaliva a Madrid dove ero arrivato di passaggio, qualche mese prima. Le cose erano andate così. Avevo una sera in città eppoi me ne sarei ripartito verso l’Extremadura dove mi aspettava una delle corride più importanti dell’anno. Posai le cose nell’albergaccio dove torno sempre e me ne andai a mangiare al Bar El Jamón di Lavapiés. Salutai la padrona, presi del vino rosso fresco e ordinai. Ma quello che doveva arrivare era ben altro rispetto alla cena che sognavo da giorni. Perché sul grande schermo acceso nella sala, quella sera sarebbe andato in onda il clásico. Ora, tutti sanno cosa è il clásico in Spagna. Nulla a che vedere con musica, canti, ricorrenze. Il clásico è la partita di calcio per eccellenza tra le due squadre per eccellenza, tra le due città per eccellenza di Spagna: Madrid e Barcellona, Real Madrid e Barça. Tutti sanno cosa è il clásico, ma non so quanti lo sappiano davvero perché se non si è a Madrid o a Barcellona inutile dire di saperlo. Io lo scoprii quella sera.



La gente cominciò a riempire il Jamón lentamente perché le partite serali in Spagna cominciano alle dieci. Erano vecchi, giovani, ragazzini, donne e uomini di ogni età. Ero stato fortunato ad accaparrarmi il mio posto. Nel bar prevalevano i tifosi del Barça e questo non dava fastidio a nessuno. Lo stadio era pieno zeppo, le squadre giocavano con un agonismo sconcertante, giocatori e tifosi si rispettavano e il calcio mi parve lo sport più bello del mondo. Improvvisamente ebbi l’impressione che il calcio potesse essere tutto, che nel calcio si potessero raccontare gli scontri più epici e che in quell’agonismo a viso aperto ci fosse qualcosa di antico e di eterno. Bevevo, mangiavo, godevo. A fine primo tempo decisi di lasciar posto a un vecchio che soffriva per il Real e uscii in strada. La città era deserta. Da ogni bar si sentivano le grida della gente e i commenti del telecronista.



I buttafuori dei locali della Latina erano piegati sulle radioline. Chi passava per strada chiedeva come stessero andando le cose e chi invece aveva solo voglia di fumare se ne stava sui marciapiede accanto alle vetrate dei locali in cui si trasmetteva la partita. In plaza Santa Ana non c’era nessuno accanto alla statua di García Lorca e nel vicolo dietro al teatro, sulla porta della Trucha, i camerieri si passavano informazioni. Non c’era un angolo di città in cui non dominasse il clásico. Poi, quando poco prima di mezzanotte tutto finì, le strade ripresero vita, la gente si riversò nelle piazze e negli slarghi dei barrios e davanti ai bar e nei ristoranti, e tutto fu come sempre, come sempre a Madrid.



Io invece pensavo al nostro, di campionato, scalciavo lattine salendo verso Malasaña e me la prendevo. I derby infuocati fra Lazio e Roma facevano ridere in confronto. Il derby d’Italia fra Juve e Inter era una pataccata a guardarlo per le strade di Torino o di Milano. Le sfide al vertice a casa nostra facevano ridere i polli. E faceva ridere i polli ogni cosa. Gli stadi vuoti, le tribune lontane dal campo, la polizia, gli ultras, la tessera del tifoso, i commenti in tv, le radio dominate da tifosi criminali, le moviole infinite e grottesche, le polemiche da quattro soldi, i giornali, le cronache, i diritti televisivi, gli sponsor, il campionato chiamato Tim, la coppa Italia chiamata Tim. Su tutto regnava uno squallore di decadenza irreversibile. A questo pensavo quella notte a Madrid. E su tutto e su tutta la decadenza regnavano gli scandali. Calcio scommesse, calciopoli, doping, farmaci, infermerie, arbitri corrotti, manager collusi, sfruttatori, distruttori. A cosa era servita tutta l’esperienza del passato? Zeman era confinato in serie B quasi fosse un favore, qualche mostro era stato sbattuto fuori come capro espiatorio, e non era cambiato nulla, proprio nulla. Ogni anno ne veniva fuori una. Stavolta era l’anno delle scommesse, di partite truccate. Ma ormai ci si era abituati. Basta, basta, basta – mi ripetevo. Ma poi venne la notte, venne l’Extremadura, vennero i tori e i toreri, venne l’estate, venne il mare, le spiagge, il caldo, la vacanza vera. E alla prima di campionato ormai avevo dimenticato.



Ero pronto a ricominciare come sempre. Senonché la prima di campionato era saltata per lo sciopero dei calciatori. Mi parve grottesco. Così ebbi una settimana per ripensare a Madrid, per ricordare l’epos del clásico e la nostra miseria, eppoi durante Roma-Cagliari, mi bastarono quindici minuti. Mi spiaceva per Sergio ma non ne potevo più.

Sono passati quattro mesi. Ogni tanto ho sbirciato risultati e classifiche, ho ascoltato commenti nei bar e ho chiesto a Sergio qualche racconto. Ma niente tv, niente giornali, niente trasmissioni. Non ho più saputo quasi nulla fino a oggi, fino a quando, cioè, ho deciso di tornare a dare un’occhiata, stabilendo che il giorno giusto fosse questo. Perché oggi si gioca quella prima giornata di campionato saltata, tra poco è Natale, il campionato è nel vivo e, dopo mesi di purificazione, voglio vedere il nostro calcio nel momento in cui, se non fosse stato per lo sciopero, avrei ripreso come sempre, dimenticando Madrid. Per capire se ho fatto bene a lasciare tutto.



Mi ci sono messo con una specie di professionalità. Ho chiesto a Sergio di trovarmi chi abbia un abbonamento per seguire tutte quante le partite e sono qui, dal suo amico Marco, altro romanista, malato di calcio. Alle otto e quaranta le squadre entrano in campo. C’è Antonio Conte, giovane allenatore della Juve: si fa non so quante volte il segno della croce in un movimento compulsivo e scaramantico; sento che da Roma, dove si gioca Lazio-Chievo, definiscono Hernanes “il profeta” mentre per Reja, serio, austero, vecchio saggio friulano, non hanno aggettivi; guardo Mazzarri che si gode il suo San Paolo urlante mentre i giocatori del Genoa si spargono sul campo e Cavani confabula con Hamsik e pare un Cristo che confessa un ragazzetto indeciso tra farsi punk o mohicano. “Vai a Parma” dice Sergio che non so perché ha un debole per Legrottaglie, l’“Atleta di Cristo” che si è votato alla castità, e dalla Juve è passato al Milan e dal Milan ora al Catania. “Vai a Milano” dico io, che ho un debole per Ranieri, per l’uomo pulito, l’allenatore serio che a Londra idolatravano e che vidi in un pomeriggio bellissimo con gli inglesi che cantavano all’unisono il suo nome, il suo nome e quello di Zola, dagli spalti ordinati dello Stamford Bridge, un pomeriggio in cui il Chelsea sconfisse il Blackburn, una partita mediocre, lo stadio esaurito, i bei bar sotto alle gradinate, gli steward che mi dissero “signore il suo posto in tribuna è da quella parte, ma la birra la finisca qui per favore”. Ranieri, l’uomo che ha perso uno scudetto a Roma per un solo punto nel classico tutto romano: il classico suicidio dell’anima uterina di questa città.



Allena l’Inter, adesso, un altro passaggio di consegne, un’altra squadra presa al volo, e io lo rispetto, quest’uomo serio e pulito, gentile e sobrio. “Basta, vai a Bologna” fa Sergio. “Ma sì dai basta, Bologna, Bologna” dice Marco. “Ok, vai a Bologna” faccio anche io. E così andiamo a vedere la Roma. E così vedo finalmente Lamela e Osvaldo e vedo che giocano meglio, molto meglio rispetto a quella prima partita, eppoi vedo che Totti è tornato a giocare dove giocava mille anni fa, dietro le punte, è magro, corre, si muove bene, sembra un ragazzino e a un certo punto gli arriva un pallone e di prima lo gira a Lamela. Un tocco magico che apre uno spazio di campo immenso. “Oddio” faccio stringendo i lembi del lenzuolaccio che copre il divano. Sergio e Marco si voltano e dicono “E che non lo sai?” “Non ci posso credere”. Resto con gli occhi incollati su Totti. “C’è solo un capitano” ridono loro. Mi pare Rivera, mi sembra di rivedere Rivera. Il Dall’Ara è quasi vuoto e me lo dimentico subito. Questo giocatore è un dio, penso. Un altro pallone, se lo porta via da una parte poi lo gira a Osvaldo. L’occhio dietro la testa, l’intelligenza che sembra spaziare più di una telecamera aperta sul campo intero. Dopo dieci minuti mi dimentico tutto: scandali, scommesse, scudetti d’ufficio, infermerie. Sergio mi domanda se voglio fare una carrellata sugli altri campi. “No, Sergio, fammi vedere Totti, ti prego”. Un destro al volo e sfiora il gol. Una galoppata a traversare il campo, un pallone accarezzato di esterno sinistro che finisce nell’angolo esatto opposto dove c’è Taddei. Rivera, mi pare Rivera. Marco e Sergio si danno di gomito. “Questo è epos, signori” dico io. “Questo è il giocatore che ha sempre sognato la casa, che è sempre tornato a Roma, che per vent’anni ha sofferto il ritorno, altro che chiacchiere. Questo è l’unico vero epos che abbiamo in Italia. È l’unico vero classico, cazzo”. Mi alzo in piedi. Mi guardano e ridono. E mentre il prato del Dall’Ara scintilla nello schermo, guardo Totti nella sua maglia bianca, il numero 10 stampato, la fascia di capitano, mingherlino, pronto a tutto pur di tornare re della sua città e rido. “Ma questo è calcio. Questo è epos, signori. Questo è un dio. Solo Omero potrebbe raccontarlo. Solo Omero. Ecco, ecco, guardate!”



Lo vedo correre indietro verso l’area. Si ferma. Calcio di punizione. Scuote il capo. Sembra improvvisamente un ragazzino. Come se Atena fosse venuta a operare una delle mille trasformazioni di Odisseo. E allora chiudo gli occhi e mentre Marco e Sergio ridono a crepapelle mi pare che tutto sia silenzio e ci sia solo una specie di fragore di mare, vento tra i cespugli, una distesa di asfodeli, Nausicaa dietro, un pallone che rotola, le grida delle ragazze, lui che si solleva e cammina lentamente, astuto, geniale, strafottente. E sento il poeta cieco che smozzica il suo verso: “E quando figlia di luce brillò l’aurora dita rosate”. Odisseo raccoglie il pallone, sorride alla ragazza. Fa altri due passi, allunga la mano, Nausicaa, il prato, il calcio d’angolo. Totti. Come si fa a dimenticare Totti?


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