Torna Peter Pan, nel romanzo di Barrie
una fiaba amara diventata inno alla vita

Una scena di Peter Pan di Walt Disney
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Domenica 16 Novembre 2008, 17:41
ROMA (16 novembre) -Quando la prima volta, bambinotto gi incrinato di voce, lessi Peter Pan di J.M. Barrie, me ne invaghii in modo insensato e furibondo; quando seppi abbastanza inglese, fu tra i primi libri che lessi e rilessi», confessa Giorgio Manganelli in un saggio del 1981 che l’Einaudi ripropone in apertura del classico della narrativa inglese di inizio Novecento ristampato a cura di Luca Scarlini (246 pagine, 16 euro).



Il testo non è la pièce teatrale che debuttò a Londra nel 1904 ma la sua evoluzione romanzesca offerta da Barrie qualche anno dopo, da tempo introvabile in Italia. La vicenda muta in maniera impercettibile (solo l’inizio è diverso), ma testo teatrale e romanzo condividono un tono “intensamente funereo”, secondo Manganelli, perché, precisa Scarlini, vennero entrambi pensati come “luttuosa celebrazione del non essere”.



Si trattava di una fiaba triste, insomma, a differenza della percezione che ne abbiamo oggi. Barrie aveva deciso sin dal 1904 che i suoi personaggi sarebbero stati protagonisti di una storia “in nero”, di sapore decadente, piena di allusioni inquietanti. L’abissale distanza tra l’idea di Peter che Barrie aveva in mente e quella percepita dal pubblico rappresenta l’aspetto più singolare e rivelatore della vicenda del bambino che non vuole crescere. Custode di ombre e messaggero di morte nel disegno originario di Barrie, irriverente capobanda di un allegro e scanzonato gruppetto di coetanei che giocattolano con il mondo prima di tuffarsi nell’avventura dell’età adulta, secondo l’interpretazione politicamente corretta impostasi già a partire dall’epoca edoardiana e in seguito rafforzata dal cartone di Disney e dai film usciti da Hollywood.



Dietro il Peter immaginato da Barrie c’erano soprattutto il ricordo di un fratello scomparso, appena quattordicenne, nel 1867 e le sue profonde frustrazioni matrimoniali. L’annegamento di David, sostengono concordi i biografi, rappresentò il punto di svolta dell’esistenza dello scrittore scozzese che, in maniera più o meno consapevole, decise di farsi carico di quel terribile vuoto nel cuore della madre. E così perse l’infanzia, che in seguito diventò per lui un’età miracolosa. «Sono convinto che nulla di quanto ci accade dopo i dodici anni possa davvero avere molta importanza per noi», chiarì in seguito. Precisando, poi, in un breve testo autobiografico: «Il mio terrore di quel periodo era la consapevolezza era che sarebbe purtroppo venuto un tempo in cui anch’io avrei dovuto rinunciare ai giochi e sarei caduto nel baratro della vita adulta». Il largo successo ottenuto a Londra, prima come giornalista e poi come narratore, non bastò a fargli mutare opinione. Temperamento solitario, Barrie cercava soprattutto la compagnia dei figli degli amici e quando decise di costruirsi una famiglia insieme all’attrice Mary Ansell l’impresa si rivelò superiore alle sue forze: l’unione, mai consumata, finì con un divorzio che fece scandalo all’epoca per la notorietà di entrambi.



La trama di Peter Pan venne messa a punto durante lunghe chiacchierate con i ragazzi e le ragazze di casa Llwelyn Davies, conosciuti passeggiando nel parco di Kensington. La prima bozza è del 1901, poi nel 1904 andò in scena la commedia che rimase in cartellone a lungo in Gran Bretagna e negli Usa, quindi nel 1911 apparve il romanzo ora riproposto dall’Einaudi. Leggendolo con attenzione è facile accorgersi che lo scrittore racconta una storia di bambini per parlare agli adulti, per rendere esplicito tutto il suo disprezzo nei confronti del mondo a lui contemporaneo e delle regole che si era dato. Come già in Dickens, anche in Barrie l’alternativa offerta è la fuga dal reale attraverso la morte precoce. Solo chi riesce a sottrarsi alla vita, infatti, evita pericolose contaminazioni, rimane puro e innocente per sempre. «Morire sarà un’avventura grandissima», ripete più volte Peter ai suoi amici. L’unica a cogliere senza incertezze il pericolo che rappresenta è la signora Darling, costretta a “riordinare le menti” dei suoi figli, a cancellare ogni traccia di un invito così inquietante. Nella commedia e nel romanzo, dunque, solo la superficie della storia è lieta. Ma chi prese ad apprezzare la vicenda all’inizio del Novecento preferì non spingersi oltre, scelse di giudicarla soltanto uno scherzo preparato da un signore di mezza età che, garantiscono i biografi, conservò sempre l’aspetto di un tredicenne con un paio di baffi finti.



Altri scrittori hanno poi riproposto in storie esemplari il teorema caro a Barrie. Ad esempio, il polacco Witold Gombrowicz con Ferdydurke, il tedesco Gunter Grass con Il tamburo di latta, il britannico William Golding con Il signore delle mosche, il ceco Milan Kundera con Gli angeli, tutti romanzi pieni di “tragic boys” assai simili a Peter e ai suoi amici. Che sono stati invece trasformati, sugli schermi tv e al cinema, in bambini scanzonati e allegri che si concedono una piccola pausa in un mondo di sogno prima di diventare grandi. Un’allegoria listata a lutto, insomma, è diventata un inno alla vita. Non deve comunque sorprendere la radicale metamorfosi subita dall’avventura di Peter e dei piccoli Darling: l’idea che Barrie aveva messo al centro della sua opera era troppo inquietante e doveva essere eliminata. Per non rendere amara una fiaba che tutti, da più di un secolo, giudicano solare dopo averne rimosso l’originario significato.