Mani pulite, 20 anni dopo: la storia raccontata da Travaglio

Colombo, Di Pietro e Davigo in una foto del 1993
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Domenica 19 Febbraio 2012, 19:17 - Ultimo aggiornamento: 23:42
"Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo" (Chiarelettere, 912 pp, 19,6 euro). Scritto da Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio un libro che racconta l'Italia dell'illegalit. Una cronaca che parte da Milano, 17 febbraio 1992, dall'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, e arriva fino agli scandali dei giorni nostri, passando per il primo governo Berlusconi, gli anni dell'Ulivo, la Bicamerale, il ritorno del Cavaliere, gli imputati e condannati in Parlamento, le leggi ad personam, i reati aboliti, i giudici trasferiti. E poi ancora i due anni del secondo governo Prodi e il terzo governo Berlusconi. Fino a Monti, sempre in attesa di una seria legge anticorruzione, vent'anni dopo. Pubblichiamo la prefazione di Piercamillo Davigo, che nei primi anni '90 ha fatto parte del del pool Mani pulite.







Per non dimenticare

di Piercamillo Davigo



Mani pulite. Vent’anni dopo. Sono passati vent’anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l’inizio di quelle indagini che i mezzi di informazione hanno chiamato «Mani pulite». Quella non era la prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza di corruzione, e non fu l’ultima. Per quale ragione, vent’anni dopo, quell’accadimento viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono?



Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell’episodio, che in un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell’amministrazione giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori.



Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre precedenti e successive? In questi vent’anni si sono sentite in proposito, da parte di vari commentatori, numerose sciocchezze, quali «lo sapevano tutti», «dov’era prima la magistratura?», «è stato un golpe» (orchestrato, a seconda dell’ideologia di chi sosteneva tale tesi, dai comunisti, dalla Cia, dai poteri forti ecc.) e altre stravaganze. Anzitutto non è vero che «lo sapevano tutti». Né i miei colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corruzione, finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie, immaginavamo le dimensioni dell’illegalità, quali emersero dalle indagini.



Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento illegale alla politica che coinvolgeva tutti, senza che nessuno dei deputati presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari di ciò che era accaduto all’interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale ladrocinio. (...)



Queste considerazioni rispondono anche alla domanda «dov’era prima la magistratura?». Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare l’esistenza di Cosa nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura interna a tale organizzazione.



Peraltro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito da porre a costoro dovrebbe essere: «Se lo sapevi perché non hai informato le Procure della Repubblica?».



Quanto alla tesi del golpe, un briciolo di buon senso sarebbe sufficiente a ricordare che chi fa affermazioni così devastanti dovrebbe adempiere all’onore di supportarle con fatti. Rimane il fatto che in quella vicenda gli esiti delle indagini furono diversi da quelli di procedimenti anteriori e successivi, pur talvolta condotti dalle stesse persone fisiche, con uguale determinazione.



1992. Il sistema entra in crisi. (...) L'enorme debito pubblico e la crisi economica del 1992 avevano determinato la riduzione della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi e questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare le tangenti sulla pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi appalti. Molti imprenditori, che fino ad allora avevano partecipato a cartelli corruttivi, si scoprirono concussi e, anziché far fronte comune con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l’elenco delle tangenti pagate. All’inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele marce. E quelli, sentendosi abbandonati dai loro complici, descrivevano il resto del cestino delle mele. Ciò determinò una reazione a catena nelle chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chiamato «effetto domino».



Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di solito non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti, in modo da acquisirne la complicità fino a che sono le persone oneste a essere isolate. Ciò indusse ad affrontare questi reati con la consapevolezza che non si trattava di comportamenti episodici e isolati, ma di delitti seriali che coinvolgevano un rilevante numero di persone, fino a dar vita ad ampi mercati illegali.



Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tradizionale forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e soggetto destinatario dell’assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una trasmissione televisiva, poco dopo l’arresto del segretario cittadino del Pds, un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da trent’anni andava ai festival dell’Unità come volontario a cuocere le salamelle sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in galera.



L’insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di corruzione, e la reazione dell’opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita dalla crisi economica, ebbe effetti (all’apparenza) dirompenti sul panorama politico: scomparvero dalla scena politica cinque partiti, quello di maggioranza relativa (Democrazia cristiana) e altri quattro (Partito socialista italiano, Partito socialdemocratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito liberale italiano), tre dei quali avevano più di cento anni. (...)



Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte e perennemente «minacciati» di riforme volte a ridurre la loro indipendenza e la loro possibilità di azione) e lo sfascio della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent’anni, spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini che l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e, se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in procedimenti giudiziari. (...)



Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimediabilmente inquinate.



Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita con il silenzio mantenuto. Nel sistema ci sono meno smagliature in cui gli inquirenti possono infilarsi per scoprire la verità. La legge elettorale vigente fa dipendere l’elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato prevale su ogni altra considerazione.



Leggi salvacorrotti. La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno opposto. Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili e – nel silenzio dei mezzi d’informazione – presentate come attestazioni di innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non doversi procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli imputati, anche da coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l’articolo 54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina ed onore», senza che mai nessuno all’interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse il dovere dell’onore. (...)



L’opinione pubblica è stata a lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992 giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli all’opera di pulizia, come l’editoriale di Giulio Anselmi La torta è finita, sul «Corriere della Sera» del 2 maggio 1992, talora perfino imbarazzanti per gli inquirenti, come gli articoli di Vittorio Feltri (poi convertito) che arrivava a scrivere: «Che Dio salvi Di Pietro» («L’Indipendente» del 15 giugno 1992) e a parlare di «regime putrido» («L’Indipendente» del 16 dicembre 1992) e molti altri ricordati nel libro.



Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati da un sistema mediatico controllato da potentati politici e imprenditoriali, frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuorviante ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali per consentire ai mezzi di informazione di parlar d’altro.



Frequentissimi sono stati gli attacchi ai singoli magistrati, a interi uffici giudiziari e alla magistratura nel suo complesso, ma ciò nonostante la magistratura sembra aver complessivamente tenuto. Negli anni ’80, quando subì il referendum sulla responsabilità civile dopo le prime indagini sulla corruzione e il crimine organizzato, la magistratura ne era uscita più indebolita di quanto non appaia ora (e tuttavia mancavano cinque anni a Mani pulite).



Oggi, come nel 1992. Per l’insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado, fino alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, così ottenendo il risultato di tenere uniti i magistrati.



Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere politico che tutelano i magistrati, sicché tale iniziativa non è da loro esigibile), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.



La crisi economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed è necessario ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che contribuiscono a rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano internazionale, per l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi acquistati dalle pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent’anni or sono perché quello è stato il momento in cui le reali dimensioni della corruzione in Italia sono cominciate a emergere e dai fatti accertati possono essere tratti elementi utili per fronteggiare seriamente queste attività delittuose.



Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002, dieci anni dopo l’inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione tentavano di accreditare l’idea che i magistrati avevano esagerato in passato, che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche, ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l’ipocrisia di un’intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte di moltissimi funzionari pubblici.



Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria che contraddistingue gli autori, spazza via le sciocchezze e le menzogne che per anni sono state divulgate dai mezzi di informazione. Accanto ai delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della classe dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale dichiariamo di voler far parte. Quest’opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto, perché è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.




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