Apprende che lo scorrere dei giorni e degli anni è un accumularsi di tempo e azioni casuali e terribili, per la sopravvivenza, in cui le relazioni – nate anch’esse per caso, senza una logica di amore o progetto - non somigliano ai sentimenti in cui indugiamo per autocompiacimento, ma sono soltanto un modo per rendere più sopportabile la permanenza in un luogo che non comprendiamo. Eppure, in uno scenario in cui la violenza non è espressa con dovizia di particolari ma è comunque un dato di fatto; in una città la cui accoglienza è fredda e indifferente, restano possibili gli scambi colloquiali; le conoscenze; i fortuiti incontri.
Eventi il cui sviluppo non immaginiamo e che siamo perciò costretti ad andare a leggere, mossi da una curiosità che è continuamente stimolata dalla scrittura di questo autore: leggermente inusuale, leggermente cinica nella scelta dei vocaboli, leggermente ironica nella consapevolezza di un effimero esistere. Che è però l’unica cosa che abbiamo, in quanto esseri umani. Una scrittura originale perché pur sapendo di riecheggiare alcuni classici della letteratura russa, li ha però preventivamente privati sia delle implicazioni altamente morali sia di qualsiasi altra finalità che – anche a livello puramente formale e sintattico – avrebbe potuto condurre verso una qualsiasi soluzione. Di assoluzione o di condanna.
Giuseppe Aloe sembra non ragionare mai, sebbene il romanzo nasca proprio da un assunto. Sappiamo quello che sa il protagonista, lo seguiamo per tutte le sue azioni e ne seguiamo contemporaneamente anche i pensieri, direttamente e dall’interno, nell’istante medesimo in cui essi si formano. Leggiamo le sue lacerazioni: quelle che sono già avvenute; quelle nuove, e soprattutto quelle terribili che induce egli stesso: negli altri – spezzandone la vita – o a volte semplicemente interagendo. Come sempre avviene, a tutti noi. Sebbene preferiamo non pensarci.
Giuseppe Aloe, Lo splendore dei discorsi, Giulio Perrone editore. Pagg. 253. Euro 15,00
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