«Seguendo Salgari ho scoperto un'altra India»
La nuova indagine di Giancarlo De Cataldo

Ritocchi per la statua della dea indu Durga (foto Sanjevv Gupta)
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Martedì 7 Ottobre 2008, 18:22
Un viaggio nell’India del nord, sulle tracce di vecchie suggestioni salgariane. “L’India, l’elefante e me” di Giancarlo De Cataldo, in questi giorni in libreria (Rizzoli, 213 pagine, 16 euro), si rivela invece una personalissima indagine della nuova modernit del subcontinente. Pubblichiamo una parte del secondo capitolo, “Rajasthan e Agra”.

di Giancarlo De Cataldo

Siamo tre italiani in India. Una piccola famiglia in un mondo altro. Gabriele, quattordici anni, sta diventando più alto di me. Me ne rendo conto con un certo orgoglio e un pizzico di sgomento comparandolo agli indiani piccoli e svelti che sciamano intorno al precario riparo di un tavolino all’ombra di un altrettanto precario caffè. Tiziana ha intorno alle spalle un pezzo di stoffa bianco con ideogrammi beneauguranti. È il dono dei tibetani che ci hanno accolti all’aeroporto, e che ora attendono pazienti il rito del chai. Abbiamo bisogno di una pausa dopo le estenuanti procedure di sbarco.



Partendo dal presupposto che l’India è stata a lungo dominata dagli inglesi, ci siamo messi ordinatamente in fila al controllo passaporti. E siamo stati ordinatamente scavalcati da una vociante marea umana. Indigeni, stranieri, comitive, carovane, gruppi organizzati, businessmen, adolescenti scafati: tutti ci passavano davanti.



«Muoviamoci» esortava Tiziana, allergica alle file e indispettita dalla naturalezza con cui venivamo distribuiti spintoni e pestoni. Gabriele e io abbiamo resistito. Ovviamente aveva ragione lei. L’India è inglese: fino a un certo punto.



Ma perché abbiamo scelto il Rajasthan?

Per quanto mi riguarda è tutta colpa di Tremal-Naik. Questo piccolo indiano scuro e nervoso che attraversa le Sunderbund, le paludi del Bengala, scortato dal fedele servo «negro» Kammamuri e dall’inseparabile tigre addomesticata Darma. La copertina dei Misteri della jungla nera di Emilio Salgari nelle Edizioni del Gabbiano di Roma, a.D. 1966, Lire 300, ce lo mostra mentre, nei sotterranei del tempio dei Thugs, sotto le radici dell’immenso sacro banyan, cerca di sottrarre la bella Ada alla furia del feroce Suyodhiana. Intorno, nella notte, risuonano cupe le note del ramsinga, lo strumento che chiama i fedeli all’orrido rito di sangue.

È il primo libro che ho veramente amato. Mi ha cambiato la vita. Mi ha contagiato per sempre con il desiderio dell’avventura. E che importa se Tremal-Naik non ha mai messo piede nel Rajasthan? Nemmeno Salgari l’ha mai fatto. Nemmeno Schopenhauer. Quello che conta che sia India. L’altra parte del mondo, appunto.



Confesso, sono vittima dell’esotismo. E di una copertina particolarmente riuscita della guida Lonely Planet che mostra un orgoglioso rejasthano in costume, con incredibili baffoni lunghi un metro.



E poi è stato decisivo il fattore Tiziana.

«Andiamo in India? Bene, ma dove?»

«Come dove? In India, no?»

«L’India è un continente sconfinato. Dobbiamo scegliere.»

«Boh, dove ci sono le tigri. Pensaci tu.»

«Quando si tratta di studiare, tu proprio, eh...»

Sì, io sono un improvvisatore. Ci ha pensato lei. Mi ha convinto che l’esotismo è una prospettiva un po’ limitata per una realtà complessa come l’India. Il Rajasthan poteva essere il punto di cerniera per esplorare quel conflitto fra tradizione e modernità che è la grande domanda sull’India.

Rajasthan, dunque, fra le tante Indie possibili. Con interrogativi che torneranno ciclicamente a riproporsi, dando voce a quell’angoscia del «vedere vedere vedere» quante più «meraviglie» che è l’ossessione del turista: abbiamo fatto la scelta giusta? Siamo capitati nell’India più incontaminata, o in quella più turistica? Non c’era qualcosa di più originale da vedere? Stiamo sbagliando tutto?



Il terminal nazionale dell’aeroporto di New Delhi è molto più ordinato del settore internazionale. Con un volo interno delle Indian Airlines, miracolosamente in orario («Thanks to Lord Ganesha» sorride la hostess, accogliendoci a bordo, «we’re on time!», raggiungiamo Jodhpur la perla del deserto.



Il Rajasthan è dominato dal grande deserto del Thar. A giornate umide e calde, dense di una polvere aspra e arida che aderisce fastidiosamente alla pelle insinuandosi sotto i vestiti, fanno seguito fredde notti che l’incantevole firmamento punteggiato di stelle, visibile senza gli eccessi di illuminazione artificiale ai quali siamo abituati in Occidente, rende memorabili.