I sogni di Vanda e quei manicomi che chiamano ospedali

I sogni di Vanda e quei manicomi che chiamano ospedali
di Carmine Castoro
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Mercoledì 29 Gennaio 2014, 16:09 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 00:17
​Vanda una ragazza “normalissima”. Semplicemente vorrebbe fare la spogliarellista. E questo cozza fortemente con la morale spaventata e integralista dei genitori. Ogni qual volta affronta questo discorso ed esterna le sue fantasie, i genitori la prendono per una disturbata, per una figlia malata e da internare, chiamano il 118 e riescono a farle dare una base di ricovero, come se fosse in preda a una crisi psicotica. Mentre ha solo altri gusti, altre visioni della vita e della sessualità. Un’”altra” corporeità. “Altri” progetti davanti a sé.



Vanda è uno dei personaggi tratteggiati da Piero Cipriano, psichiatra di uno degli Spdc di Roma (Servizi di Prevenzione Diagnosi e Cura), reparti delle strutture ospedaliere che avrebbero dovuto accogliere e ammorbidire, per così dire, il processo di osservazione di un disagio mentale qualora capitasse a ognuno di noi, a un cittadino come tanti. Fuori dalle logiche manicomiali, dalle inferriate alle finestre e dagli elettrochoc contro cui si erano scagliati Franco Basaglia e tutti coloro che hanno seguito l’idea filosoficamente potente di una terapia che andasse contro la farmacologizzazione e la contenzione fisica di chi “non ragiona come gli altri”. La legge 180 del ’78 nacque e fu realizzata per questo, in vista di un principio di ascolto e di umanizzazione terapeutica dei problemi mentali, ma da allora molti passi indietro sono stati fatti. Cipriano, con un libro che si tiene su una lama di rasoio e che dosa benissimo il carico emotivo di una professione borderline e i riferimenti saggistici di chi deve aver studiato tanto per poter entrare nei microcosmi foschi e labirintici di chi ha di fronte come paziente, ci racconta, in una sorta di “autofiction” – come lui stesso la definisce – la deriva burocratica, folle questa sì, e violenta in tanti casi, che ha assunto l’assistenza psichiatrica oggi, spinta a recuperare, da una ragnatela di leggi e protocolli che spesso brutalizzano la dignità dell’uomo della strada, quella dimensione asilare, repressiva, clinica in senso restrittivo e punitivo, da cui sembravamo ormai immuni.



Il risultato è la sorte di tante persone sofferenti sottoposte alla lotteria del medico buono e di quello cattivo, dell’infermiera crudele e di quella pietosa, del direttore sanitario prodigo e di quello rubastipendio, che si ritrovano chiuse, sequestrate, legate, in padiglioni che dovrebbero ridare invece una scintilla di razionalità a pensieri ingovernabili, là dove ci si dovrebbe occupare solo di emozioni scheggiate, di mondi che hanno perso la libertà, di dolori ciechi e spesso incomunicabili, e dove ancora vige la legge del più forte, dell’indifferenza, del bavaglio e delle pillole.



“Viviamo in una società carceraria – dice Cipriano -. Una società che ha bisogno del carcere e del manicomio, tutt’e due sono utili allo scopo di segregare la devianza. La devianza e la miseria. Carcere e manicomio, sotto questo profilo, sono perfettamente intercambiabili. Le carceri sono piene di persone con problemi psichici. I manicomi (e i SPDC) sono pieni di miserabili”. In pratica, un tragico grottesco ritorno al passato, mai del tutto superato, un feudalesimo della medicina, di cui il libro evidenzia l’offesa profonda e la voglia sisifea di riscatto.



Piero Cipriano “La fabbrica della cura mentale” (Elèuthera, pagg. 175, euro 14)
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