Riccardo De Palo
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di Riccardo De Palo

Valérie Perrin: «Il segreto di "Cambiare l'acqua ai fiori"? Saper toccare il cuore dei lettori»

Valérie Perrin sul palco del'Auditorium
di Riccardo De Palo
7 Minuti di Lettura
Domenica 4 Ottobre 2020, 11:16 - Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 12:13

Certi romanzi diventano fenomeni globali perché riescono a toccare i nostri sentimenti più profondi, perché il loro messaggio diventa universale. Così è stato per Cambiare l’acqua ai fiori, secondo romanzo dell'autrice francese Valérie Perrin, di passaggio a Roma per il festival "Insieme". Un libro cresciuto costantemente nei mesi scorsi, la cui fortuna si è basata sul passaparola.

Quante copie ha venduto? 

«In Francia il successo dei miei primi due romanzi è stato straordinario, poco più di un milione di copie in tre anni. Per l’estero non ho ancora un resoconto, ma i miei libri sono tradotti in 15 Paesi. Il successo in Italia è già straordinario. E poi la Spagna, il Portogallo, gli Stati Uniti, il Regno Unito, tutti i Paesi asiatici, Israele, la Russia. Perché gli italiani si sono innamorati del mio romanzo? In fondo, non me ne stupisco, mio nonno era italiano e mi sento molto vicino alla vostra cultura». 

Qual è il segreto del suo successo?

«Cambiare l’acqua ai fiori tocca i lettori perché va oltre le apparenze; soprattutto per la benevolenza di Violette, la narratrice. I lettori hanno trovato in questa guardiana di cimiteri qualcosa di universale».

Come le è venuta l’ispirazione?

«Avevo finito di scrivere il mio primo libro, (Il quaderno dell’amore perduto, ndr): ero alla ricerca di qualcosa di diverso, ma ero anche piena di malinconia. C'è sempre un po' di tristezza, quando si abbandona una storia, e dei personaggi a cui ci si è affezionati. Ero con il mio compagno, in Normandia, e stavamo passeggiando in un piccolissimo cimitero, dove sono sepolti i suoi genitori. Avevo degli stivali, ma erano troppo grandi per me. Così a un certo punto mi sono seduta sulle loro tombe e ci siamo scambiati le scarpe. È stato in quel momento che ho avuto l’idea del custode del cimitero. Mi sono detta, è un personaggio così romanzesco, è fantastico. Ho capito che doveva essere una donna, sola. Sono passati 19 anni da quando suo marito è scomparso nel nulla. Questo è stato il punto di partenza di tutta la storia». 

Il compagno a cui ha restituito gli stivali, vogliamo dirlo? Era il regista Claude Lelouch.

«Sì, esatto. Scrivo molte sceneggiature con lui, da oltre dieci anni; e ho fatto anche molte foto di scena per i suoi film».

Come lo ha conosciuto?

«Oh, in maniera assolutamente incredibile. L’ho conosciuto 14 anni fa a Deauville, quando gli intitolarono una piazza (in occasione dei 40 anni del film Un uomo, una donna, ndr). Una mia amica giornalista copriva l’avvenimento e mi domandò, a me che amavo molto i suoi film di scrivere una lettera al regista che potesse accompagnare un suo articolo. Lelouch mi chiamò al telefono, per dirmi che trovava quella lettera straordinaria. “Vorrei tanto incontrarla - mi disse - lei chi è, dove vive? Nessuno mi ha mai scritto una cosa del genere”. E così, alla fine, ci siamo conosciuti.

Il suo è soprattutto un libro sulla vita e sulla morte, sulla memoria, e sulla persistenza degli affetti.

«Violette è una donna che trova la forza di vivere malgrado affronti le peggiori avversità. Molti lettori mi hanno detto che Cambiare l’acqua ai fiori li ha molto aiutati a superare un lutto. E poi ci sono molte persone che, come me, non vedono solo il lato lugubre del cimitero, ma ne percepiscono la spiritualità, lo vedono come un giardino di anime, fatto di fiori e parole d’amore».

Violette vede i morti come degli amici.

«Si, esattamente. E si prende cura di loro, come dei vivi. Lavora in un piccolo cimitero, di una piccola città della Borgogna. Conosce tutti i nomi sulle tombe. Se nota un sepolcro abbandonato, se ne prende cura. E soprattutto, Violette tiene un registro in cui annota di tutto: chi è morto, chi era presente alle esequie, quali sono state le lapidi e gli epitaffi apposti sulla tomba. Violette rappresenta la memoria di coloro che sono scomparsi».

La sua protagonista ha uno sguardo innocente e assieme disincantato della vita. In che misura le assomiglia?

«Penso che mi assomigli parecchio, ma anche che è un personaggio molto complesso. In un adattamento cinematografico, si cui stiamo discutendo, sarà molto difficile trovare l’attrice che possa interpretare il ruolo di Violette. Perché, nella mia mente, è la somma di molte donne insieme. Se la dovessi descrivere fisicamente, sarebbe come une ombre sur un trottoir, un’ombra sul marciapiede, una persona che non noti immediatamente. Se la dovessi descrivere sarebbe piccola, minuta, molto magra. E se dovessi farle un primo piano, la vedrei bellissima. Sono proprio le donne così a risultare alla fine tape-à-l’oeil, appariscenti, come si dice in Francia.  Io la sento molto vicina a me, perché, se non altro, abbiamo in comune la caratteristica di guardare le persone in modo diverso».

Sembra che stia tracciando l’identikit di Marion Cotillard.

«Lei è la perfezione. Ed è in grado di fare qualsiasi cosa. In Francia hanno girato l’adattamento da un romanzo di Milena Agus, Mal di pietre. Io quel libro l’avrei lasciato in Italia perché tutta la Sardegna è una terra sublime. Ma Marion Cotillard è entrata nella parte perfettamente. È stata convincente nel ruolo di un’operaia, con i fratelli Dardenne; ma è capace, come abbiamo visto, di diventare Édith Piaf, una principessa, una prostituta. Sì, potrebbe fare di tutto».

Ma questo film si farà?

«Mi piacerebbe molto, abbiamo proposte in questo senso. Non so ancora se ne curerò io stessa l’adattamento cinematografico, se sarò io la regista, o se lascerò il compito a qualcun altro».

Potrebbe dirigerlo Lelouch?

«No, perché Claude non fa adattamenti. Lui cambia sempre tutte le storie e Cambiare l’acqua ai fiori è guidato da una trama precisa, non puoi cambiare molto. Claude ha girato cinquanta film, ma ha realizzato un solo adattamento nella sua vita: Les misérables da Victor Hugo, che ha trasposto nel ventesimo secolo».

Malgrado l’amarezza della vita e delle tragiche storie che compongono la sua storia, c’è sempre un fondo di incrollabile speranza: basta continuare a curare il proprio giardino, è così?

«C’è una sorta di processo di guarigione che passa attraverso l’azione di piantare, far crescere e raccogliere i frutti dell’orto. Violette ci tiene molto, è un qualcosa che l’ha salvata. Vuole capire come far diventare la terra fertile, perché, quando succede, la vita riprende. Per Violette, imparare a effettuare i lavori di giardinaggio è molto importante. Così come, effettivamente, lo è la natura. Gli animali sono centrali nel romanzo, così come lo sono per me. Questo romanzo è stato molto letto durante il lockdown: e questo forse perché oggi molti vogliono tornare alla terra, ai valori essenziali, in una parola: alla natura».

Lei scrive: “C’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi”.È questo il messaggio del suo romanzo?

«Assolutamente, sì. È l’epitaffio preferito di Violette. Bisogna imparare, e farlo subito, ad affrontare il lutto, e questo è terribile. Domare la solitudine e l’assenza. E poi, a poco a poco, si ritrova quell'assenza in una canzone che ascoltiamo nel vento, tra gli alberi, o in qualcosa di molto bello, che ci ricorda la presenza di qualcuno».

Quanto è importante il cinema nella sua scrittura? In molti passi sembra di avere la scena davanti ai propri occhi.

«Me lo dicono tutti e a volte, senza rendermi conto, quando parlo di un capitolo dico “questa scena”, perché lo so che scrivo come una sceneggiatrice, come una regista. Ne ho coscienza. Quando si scrive una sceneggiatura, non ci si concentra sugli abiti, sui dettagli, su tutto quello che dona luce a un romanzo». 

Sta lavorando a qualche film in questo momento?

«No, da quando è uscito Cambiare l’acqua ai fiori, per niente. Sto terminando il mio terzo romanzo. Ho ancora una decina di capitoli da correggere, è rimasto poco da fare. La settimana prossima lo consegno, uscirà per marzo in Francia».

Ce ne può parlare?

«Si intitolerà Trois, è la storia di tre amici d’infanzia, due maschi e una femmina, che dalle elementari diventano inseparabili, crescono insieme. Nel presente, hanno quarant’anni, e non si capisce perché non siano più amici e non si vedano più. È un libro sull’infanzia, l’adolescenza, l’amore, sul perché ci si perde di vista, e perché ci si ritrova».






 

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