Lampi
di Riccardo De Palo

Il "Numero zero" di Umberto Eco e l'eterna macchina del fango

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Sabato 7 Febbraio 2015, 00:34 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 02:37
“Numero zero” è un romanzo di Umberto Eco ben diverso dai precedenti. Almeno, in apparenza. Addio potenti trame noir medievali, come ne “Il nome della rosa”, addio cospirazioni, misteri e paradossi provenienti da un lontano passato. Il nuovo libro di Eco è ambientato nel 1992, e non può certo dirsi un romanzo storico; eppure, quanto sembra già lontano l’anno di Tangentopoli, così dominato dall’informazione (e dalla contro-informazione) su carta, quando anche il cellulare sembrava una moda che non avrebbe mai preso mai piede; quanto appaiono remoti il caso Gladio, e le polemiche sulle cellule segrete pronte a intervenire in caso di vittoria dei comunisti…

Tutti, nel libro, sono dei falliti. A cominciare del protagonista, il dottor Colonna (come le colonne tipografiche) che ha abbandonato gli studi per vivere del lavoro di traduttore e che a cinquant’anni viene assoldato dal direttore di un nuovo giornale, tale Simei -  un uomo che “aveva la faccia di tutti” - per collaborare al numero zero di una testata che si chiamerà “Domani”.  Gli viene chiesto di lavorare come ghost writer a un libro, che racconterà l’esperimento, e gli viene subito spiegato (mentre gli altri redattori ne sono ignari) che il giornale, in realtà, non uscirà mai. L’editore, il commendatore Vimercate, vuole soltanto usarlo come mezzo per entrare “nel salotto buono della finanza”, e quindi esibire un giornale pronto “a dire la verità su tutto”, con dodici numeri zero che non andranno per nulla in edicola. Le riunioni di redazione diventano quindi un laboratorio per produrre complotti, per ordire una “macchina del fango”. Come se si facesse veramente sul serio. “I sospetti non sono mai esagerati - dice Simei ai colleghi allibiti - sospettare, sospettare sempre. Non è così che si trova la verità?”. Sullo sfondo delle vicende (ormai storiche) di Mario Chiesa e del Pio Albergo Trivulzio, si discute di come nuocere a comando, agitando ipotesi, accostando nomi, smentendo (in maniera invero furbesca) accorate smentite. Perché “non sono le notizie che fanno il giornale, ma il giornale che fa le notizie”.

“Simei - pensa il protagonista - non sarà un gran giornalista, ma nel suo genere è un genio”.

L’intento è sempre di far vedere che si può dire tutto, ma ci si ferma molto prima che ciò avvenga.

E non si pubblica niente. Così, il solerte (e spilorcio) Braggadocio, che indaga sul golpe Borghese ed è convinto che Mussolini sia riparato in Argentina, non riesce a portare a termine lo scoop di una vita. E a questo punto il breve romanzo (risparmiamo i dettagli) vira rapidamente sul noir, con un’improvvisa serie di colpi di scena, lasciando il lettore con l’idea che i giornali siano fatti “per coprire e non diffondere le notizie”. Il che forse è vero nel cattivo giornalismo, e si spera sia sempre soltanto un’eccezione. Ma ciò che emerge, dal libro, è anche la necessità di “costruirsi un nemico”. Come scriveva lo stesso Eco in una sua raccolta di saggi, “avere un nemico è importante non solo per costruire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori”. Pertanto, quando il nemico non c’è, “occorre costruirlo”. Ecco allora la necessità di creare ingegnosi complotti, ardite supposizioni, macchine pronte a generare sospetti.

L’operazione è riuscita? Forse. Ma Umberto Eco é lo scrittore che, piú di ogni altro, ha saputo rendere appetibile una letteratura coltissima, alta, strutturata a piú livelli. ”Numero zero", invece, non è nulla di tutto questo. Dietro la trama, non ci sono significati nascosti. Ci sono semmai riferimenti agli eterni misteri della storia recente italiana, che restano come sono, senza chiavi certe di lettura. Senza scoop. Verrebbe da pensare che non sia questo il suo capolavoro, e forse neppure i bellissimi e sontuosi “Il nome della rosa”, o “Il Pendolo di Foucault” (colpevole, a suo modo, di avere creato Dan Brown), o il più recente, e ben costruito, “Il cimitero di Praga”. Eco, insomma, è sempre geniale, ma la palma di miglior invenzione va forse a quel breve saggio (da “Diario minimo”) in cui si immagina che studiosi provenienti da altri pianeti trovino, come unica prova della passata esistenza dell’Italia (La Terra è ormai distrutta da una catastrofe atomica) un libretto contenente i testi di alcune canzoni popolari. Così, nel corso di un serissima conferenza archeologica, viene spiegato “chi eravamo” a partire da pochi versi come “vola, colomba bianca vola” o “e pippo pippo non lo sa”. Altro che macchina del fango.
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