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di Luca Cifoni

Jobs Act, le due retoriche (sbagliate) sul lavoro

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Venerdì 24 Novembre 2017, 22:56 - Ultimo aggiornamento: 23:07
Il tema del lavoro e gli effetti del Jobs Act saranno di sicuro al centro della prossima campagna elettorale. Oggetto del contendere, in particolare, il decreto legislativo 23/2015 che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, al quale non si applicano in caso di licenziamento le tutele previste dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Due le posizioni in campo già da oggi, semplificando ma nemmeno troppo: quella di governo e maggioranza secondo cui il Jobs Act ha risvegliato il mercato del lavoro creando un milione di nuovi posti e quella delle forze a sinistra del Pd per le quali invece quel provvedimento ha compromesso i diritti fondamentali dei lavoratori italiani, mettendoli in balia dei "padroni".

Lo scontro sarà aspro e difficilmente resterà spazio per ragionamenti diversi e meno polarizzati. Eppure entrambe queste posizioni appaiono piuttosto insostenibili se si guarda ai numeri. Partiamo proprio da quelli citati più spesso dal Pd e dal suo segretario, ricordando che si tratta della rilevazione Istat sulle forze di lavoro e quindi non di dati amministrativi sui flussi di nuovi contratti: è comunque la statistica di riferimento anche a livello internazionale per valutare l'andamento del mercato del lavoro. Serve poi un'altra avvertenza: nella polemica politica si parla spesso di Jobs Act mettendo insieme il provvedimento di marzo 2015 con la generosa decontribuzione avviata nel gennaio precedente per incentivare le nuove assunzioni, un beneficio temporaneo che ha ovviamente influenzato le scelte dei datori di lavoro.

Per valutare il Jobs Act in quanto tale dobbiamo però riportare indietro le lancette dell'orologio proprio al marzo di due anni fa, mentre la cifra (arrotondata) al milione usata in questi ultimi tempi si riferisce in realtà al confronto con febbraio 2014, mese in cui si è insediato il governo Renzi. Dunque nel settembre scorso rispetto a marzo 2015 gli occupati in più secondo la rilevazione Istat (non "nuovi posti" strettamente parlando) sono circa 800 mila; ma siccome calano di 100 mila unità gli indipendenti l'incremento di quelli dipendenti è maggiore. Questo incremento però si divide quasi a metà, con 441 mila occupati a tempo indeterminato e 466 mila a termine. La crescita del lavoro precario rispetto a quello stabile è molto più visibile (+20 per cento contro +3 per cento) data la differenza di dimensioni tra i rispettivi stock di occupati. Un risultato abbastanza sorprendente se si considera che l'obiettivo principale del Jobs Act era fare del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti la forma di occupazione standard. Per di più una parte consistente dell'aumento di occupati permanenti è chiaramente legata agli incentivi e non può essere messa "in conto" alle novità normative. Insomma attribuire un milione di posti al Jobs Act è molto più che un'esagerazione.

Ma proprio questo insuccesso (almeno parziale) rende poco credibile anche l'idea di una riduzione sostanziale dei diritti per effetto del Jobs Act. Secondo questa visione il nuovo contratto a tutele crescenti, avrebbe dovuto attirare le imprese grazie alla possibilità di licenziare facilmente; sta di fatto però che le stesse imprese hanno ancora scelto massicciamente di assumere a termine, in particolare con il venir meno della decontribuzione. Non ci sono evidenze di particolari incrementi dei licenziamenti disciplinari, fenomeno che eventualmente dovrà essere valutato nel tempo vista l'incidenza ancora ridotta dei nuovi contratti. Invece è in corso da qualche anno una riduzione del contenzioso in materia, che però va fatto risalire alle correzioni all'articolo 18 già introdotte nel 2012.

Al di sotto di queste due retoriche c'è un mercato del lavoro che certamente è cresciuto in questi anni - in concomitanza con una ripresa che è di tutta Europa - ma che al di là degli aspetti quantitativi ha evidenti problemi in termini di qualità dell'occupazione. Per una serie di motivi (deindustrializzazione, scarsa propensione all'innovazione, dimensione delle imprese, qualità dell'istruzione, demografia) che forse sarebbe il caso di esaminare razionalmente. Persino in campagna elettorale.
 
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