Pescara, lite per avere più tangenti: così è stata scoperta la Cupola del terremoto

Il procuratore di Pescara Cristina Tedeschini
di Maurizio Cirillo
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Sabato 15 Ottobre 2016, 16:46
PESCARA Avrebbero stretto un “patto di non concorrenza” i protagonisti dello scandalo per la ricostruzione post terremoto a Bussi sul Tirino e Bugnara, sette dei quali finiti agli arresti domiciliari con accuse diverse che vanno dall’associazione per delinquere (in capo al dipendente del Comune di Bussi Angelo Melchiorre, al colonnello Giampiero Piccotti e l’imprenditore perugino Stefano Roscini), alla corruzione, dalla turbativa d’asta all’estorsione, al falso. Secondo il gip di Pescara Gianluca Sarandrea avevano «elaborato e realizzato un programma mediante la preventiva assunzione di numerosissimi incarichi per la progettazione degli aggregati edilizi, in maniera da assumere nel settore specifico una posizione di sostanziale monopolio che ha consentito di imporre condizioni capestro alle ditte costruttrici, costrette ad erogare rilevanti somme in denaro per poter ottenere gli incarichi per la ricostruzione».

IL CONTROLLO

«La finalità del piano - aggiunge il giudice - è indicata testualmente nell’atto (il “patto” ndr) dove si esplicita che l’obiettivo è quello di esercitare un controllo pressoché totale nelle fasi della ricostruzione. “Altrimenti potrebbero esserci contrasti deleteri per gli affari” si dice in una delle intercettazioni tra i protagonisti. Un “patto di non concorrenza” con il dipendente Melchiorre, responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Bussi, in cambio di un “anticipo” probabilmente in denaro».

In un’agenda sequestrata a Roscini e intestata “Ministro 2010”, erano state annotate le seguenti diciture: contratto per email, vari paesi (riferendosi ai paesi in cui partiranno i lavori di ricostruzione); “Patto di non concorrenza” (ovvero la suddivisione dei lavori tra le ditte di Roscini e le ditte locali). C’è anche una lettera, rinvenuta nel computer di un altro indagato, Angelo Riccardini, inviata ai tecnici di Bussi (Emilio Di Carlo, Marino Scancella, Franco Colella e Marino Giangiulio) che si chiude così: «Ricordo in ultimo che il risultato finale sarà garantito soltanto dal mantenimento dei ruoli organizzativi e gerarchici così come a voi noti». Dunque, secondo l’accusa, una vera e propria spartizione dei lavori tra le ditte di Roscini, Claudio D’Alessandro e il gruppo di Artena gestito da Mario Petrichella. Ma ad un certo punto questa organizzazione avrebbe presentato una falla dovuta alla posizione assunta in particolare dal tecnico Di Carlo che avrebbe voluto di più. E lo si comprende meglio dall’interrogatorio di un imprenditore, Carlo Carosati, della società Corinzi 13, che venne convocato da Di Carlo. «Dal Di Carlo - dice Carosati ai magistrati - si parlò piuttosto animosamente di come dovevano essere distribuite le percentuali dei soldi. Di Carlo era quello che, oltre a dirigere i lavori, avrebbe dovuto validare i sal ed effettuare quindi il controllo in corso d’opera. Percepii che in quel frangente vi era un vivace disaccordo su come ripartire la percentuale del denaro che io mi ero impegnato a pagare al consorzio Ges.com. Insomma mi si chiese di non versare tutto il 20 per cento alla Ges.com, bensì di dare il 12 per cento direttamente al territorio. Fui anche minacciato da Di Carlo che mi disse che allora avremmo trovato pane per i nostri denti in considerazione della sua qualità di direttore dei lavori. Mi disse “si ricordi che io sono il direttore dei lavori e che potrei crearle dei problemi. Troverà quindi pane per i suoi denti”».

DAZIONI

Ma Di Carlo avrebbe preso soldi anche in altra maniera. «Le dazioni in denaro da parte di Roscini a Di Carlo - scrive il giudice - risultano mascherate in parte con la retribuzione mensile che la ditta Ro.Sa.Fin, di Roscini, effettua alla moglie» assunta solo fittiziamente nella sede della società ad Assisi, dove non andò neppure per un giorno. E a riprova ci sarebbero i pagamenti con la carta di credito della signora Di Carlo, effettuati in negozi di Pescara negli stessi giorni e nelle ore in cui avrebbe dovuto essere al lavoro ad Assisi.
Un’attività, quella della presunta cupola disegnata dalla procura di Pescara, che sarebbe andata avanti nonostante i protagonisti fossero ormai a conoscenza delle indagini. Angelo Melchiorre, il perno dell’organizzazione, invece di preoccuparsi di quanto stava facendo la procura, pensa alla “disinfezione” del suo ufficio per evitare intercettazioni. Telefona ad uno specialista e gli chiede di portare apparecchi più sofisticati per stare più tranquillo “alla stalla”, escludendo l’ingresso di “animali”, «indicando - scrive il giudice - il suo ufficio cole “la stalla” e gli “animali” come eventuali ascoltatori».
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