Questa frase l'avevo sentita più volte. Tante. Come quando partì nel 2008 per l'Africa più nera; a inizio 2010 per la Russia sotto zero (da lì fino in Iran); e poi ancora per la Terra del fuoco (Argentina) con l'obiettivo di arrivare in Antartide, nel 2012. Al telefono replico: «A Gianfrà, dici sempre così. Ti aspetto quando torni, così raccontiamo sul giornale pure questa». E devo dire che mi ero quasi dimenticato della chiamata. E di quella frase.
Ecco: quando al Messaggero abbiamo saputo che nessuno ti aveva più visto da giorni, laggiù in Malesia, quella frase mi è tornata subito nella testa. Non so dare un significato estremo a quelle parole, da te ripetute in altre occasioni. Non so dove tu sia, nè se mai ti rivedremo suonare in redazione ed entrare con il tuo inconfondibile “è permesso?”. So che comunque vada, nonostante le tue tante scuse preventive, ci mancheranno le tue tante rotture di scatole che ci rovesciavi addosso. Sì, erano quelle tue “fisse” per il mondo arbitrale - da riformare alla radice - o per la via sotto casa ingombra di rifiuti ed escrementi che ti eri messo a ripulire (con tanto di foto, a destra).
Gianfrà: se dopo tanti anni continuavi a venirci a trovare, forse è perché in fondo ci capivamo. E che quel tuo voler essere gojo, tante volte sottolineato, faceva così parte di te da sentirne oggi l'ingombrante mancanza. Ecco, qui ci piace pensare che un giorno ti ripresenterai per dire: «Hai visto che scherzo ho messo su pure stavolta?».