La nascita di una notizia nell'era dei giornali digitali

La nascita di una notizia nell'era dei giornali digitali
di Antonio Bonanata
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Venerdì 17 Aprile 2015, 20:32 - Ultimo aggiornamento: 23:15
Come nascono i fenomeni virali nel giornalismo, le catene di news che - partendo da un piccolo fatto, apparentemente insignificante, diventano veri e propri fenomeni giornalistici?



Se ne è parlato al Festival del giornalismo di Perugia, in un incontro dedicato alla ricerca del punto di origine della notizia. Tra i partecipanti, Alessandro Gilioli (giornalista de L'Espresso), Manuela Kron (responsabile 'Corporate affairs' di Nestlé) e il freelance Filippo Santelli.



Quando gli viene chiesto in che modo cerchi di prolungare il ciclo vitale di un pezzo, Gilioli risponde che a lui, prima di tutto, "non interessa"; e poi che "non esistono regole generali, la comunicazione virale è come la felicità, più la cerchi meno la trovi. Puntare alla comunicazione virale significa attivare un meccanismo intuitivo, bisogna cioè operare senza l'obiettivo di creare fenomeni viral".



Parlando di questo aspetto del giornalismo contemporaneo, non si può non considerare una componente da sempre centrale, ma oggi ancor più cruciale: il fattore tempo. Ovvero, la corsa a chi da' prima la notizia, che però è nemica dell'approfondimento e della verifica di ciò che si scrive. Un giovane giornalista (è il caso di Santelli) che reazione ha rispetto al fattore-tempo? "Per me è ovviamente una variabile fondamentale, come per qualsiasi altro giornalista; ma questo vale ancor di più per un freelance. È il sistema che ci porta a operare in questo modo, singolarmente non hai la forza di incidere, sei costretto a produrre quanto più materiale possibile. Si deve perciò provare a essere un freelance di qualità".



C'e poi tutto un capitolo sui commenti, una sezione da ripensare completamente: "Ora è poco più di un bar, ognuno scrive quello che gli viene in mente, magari leggendo solo il titolo. Il segreto è la pre-moderazione". E la fretta, altro vecchissimo problema, reso molto più attuale negli ultimi 15 anni (da quando c'e la rete)? "È una malattia infantile del giornalismo digitale, frutto della subcultura del 'buco', a cui ai lettori non frega nulla" precisa Gilioli. La ricerca della qualità deve prevalere, il maggior patrimonio che abbiamo noi giornalisti è la reputazione, non quantificato ma sempre più rilevante. Il giornalista de L'Espresso ricorre poi a un'efficace metafora per spiegare come è cambiato il giornalismo negli ultimi tempi: "Non c'è più una dieta mediatica, 30 anni fa davamo l'acqua nel deserto, oggi la vendiamo a chi vive lungo le sponde di un torrente. Dobbiamo quindi vendere qualcosa di diverso".



E le aziende? Hanno imparato a muoversi tenendo conto di tutte queste trasformazioni? "Ormai coltivare il rapporto one-to-one è indispensabile" spiega Manuela Kron; ma Santelli avverte: "Oggi le aziende editoriali hanno una organizzazione arcaica, sbagliata per i tempi che viviamo. C'è ancora una grossa distinzione tra dentro e fuori, tra collaboratori non ci si parla e invece dovrebbe essere il contrario. Per il benessere della testata".