Fanny Ardant, in teatro con una pièce di Duras: «Sono dolce ma mai moralista»

fanny Ardant e Nicolas Duvauchelle
di Francesca Pierantozzi
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Lunedì 10 Marzo 2014, 17:35 - Ultimo aggiornamento: 15 Marzo, 11:31
Arriva come una furia, sorridente, vaporosa, altissima, saltellante, Fanny Ardant. E’ l’una e non ordina niente: Ho appena fatto colazione. Ride molto, non sta ferma sulla sedia, muove le gambe, le allunga, scalcia. Ha 65 anni, non nasconde mai l'età, anzi, come per molto altro: «Francamente, me ne infischio». Questi giorni è in teatro. E’ la madre viscerale di Des journées entières dans les arbres di Marguerite Duras, di cui è il centenario della nascita. Una donna carnale, che ama il figlio, gigolò e nullafacente, in modo irragionevole e disperato. Le somiglia questa donna, che mangia i crauti sulla scena, masticando a bocca aperta? «Detesto i crauti, ma somiglio alla madre della pièce di Duras, una donna che mangia, beve, sputa, una donna che non dà giudizi morali su nessuno, nemmeno su se stessa. Marguerite Duras parla sempre dell’essere umano davanti alla società che lo giudica, la società che stabilisce se sei una buona o una cattiva madre, un buono o cattivo cittadino. Duras era un’anarchica, per questo disturbava. La madre della pièce ama suo figlio e basta, se ne frega se vive con una prostituta, se fa il gigolò. E’ questo che mi piace. ll giudizio su quello che faccio, dico, penso o vivo mi è del tutto indifferente». La nostra società è troppo moralista? «Ormai è solo moralismo. Tutti devono essere politicamente corretti, sono banditi gli eccessi di linguaggio, le violenze verbali, si cammina dritti… E’ successo così, senza che ci fosse bisogno di una dittatura, è un ordine molto forte». Questo moralismo le pesa? «A me? Io me ne infischio completamente. Il giudizio della società non m’interessa. E’ una scelta. A volte mi chiedono se non ho paura di perdere la mia identità recitando. E io rispondo: magari perdessi la mia identità! So che è contraddittorio, ma non importa: a volte vorrei essere indifferente, più dolce». Non è dolce? Lei ha pagato? «Sì, un prezzo alto. Vengo da una famiglia classica, tradizionale, in cui sono stata molto felice. Avevo un modello nella testa che amavo, i nonni, la casa in campagna… questa famiglia io non ho potuto farla». Anche Duras ha pagato un prezzo per conservare la libertà di provocare? «Duras è a parte. Adorava la provocazione, già negli anni Sessanta… Ha vissuto quello che era, che diceva, che scriveva. Amava gli uomini, amava bere, mangiare, la musica popolare, le canzoni. Era autentica, carnale. Che scandalo dire di amare Julio Iglesias!». Perché, lei ama Julio Iglesias? «Molto! Non posso ascoltarlo la sera, mi rende troppo malinconica. E poi adoro Adriano Celentano, anche lui un agitatore. E vogliamo parlare di E penso a te di Lucio Battisti? Grandiosa. Gli essere umani possono far coabitare cose contraddittorie e diverse, come Lucio Battisti e Bach». Arriviamo alla Grande Bellezza. C’è anche lei, per qualche secondo… «Conosco bene Paolo Sorrentino, è un grande regista, uno dei migliori. This must be the place, mi ha folgorato. Ne La grande bellezza ho ritrovato qualcosa de La Terrazza di Scola. E’ bello, intelligente, profondo». In Italia l’Oscar ha sollevato grandi passioni. «Lo so e non capisco perché. Un Oscar non è né una vergogna né una consacrazione: un Oscar non è niente! Tanto rumore significa soltanto avere, nel bene o nel male, un atteggiamento da lacchè nei confronti dell’America. La verità è che Sorrentino va a toccare là dove fa male. Non è un film su Roma o l’Italia, è un film su tutti noi. I problemi, il ridicolo che solleva, ci riguarda tutti. E poi, in Italia come in Francia, adoriamo massacrare chi vince». Cos’è l’Italia per lei? «L’Italia è dentro di me, come una promessa di felicità. Un giorno ci andrò a vivere. Amo tutto dell’Italia, anche la furia, la contraddizione, la rabbia». Souvenir? François Truffaut? «E’ stato il periodo più felice della mia vita. A volte mi chiedo se sia esistito davvero. Josephine è il suo ritratto. Era piccolissima quando François è morto, eppure ha i suoi gesti, quel modo di girare la testa, di scansare i capelli. E’ troppo difficile parlare dei momenti di felicità. Fa ancora male…».
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