Le rovine di Roma “riciclate”: l'arte della città rinasce dalla plastica

Le rovine di Roma “riciclate”: l'arte della città rinasce dalla plastica
di Luca Ricci
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Venerdì 30 Gennaio 2015, 14:41 - Ultimo aggiornamento: 31 Gennaio, 13:42
Dieci tonnellate di plastica cittadina: ecco il materiale principale che ha dato vita alla mostra “Refugee Scart” che si sta per chiudere al Museo Carlo Bilotti di Roma (è possibile visitarla fino al 1 febbraio).



Oltre all’impegno civico e all’aspetto umanitario (le opere erano di un gruppo di rifugiati politici di area sub-sahariana), quella proposta nelle stanze del museo dell’Aranciera di Villa Borghese è stata una rifondazione di Roma basata sulla plastica, materiale di scarto ormai divenuto un vero e proprio must artistico.



D’altronde gli artisti non sono stati mai schizzinosi e hanno spesso (ri)utilizzato i materiali più eterogenei per la creazione delle loro opere. Vincent van Gogh e Paul Gauguin nel loro periodo arlesiano preferirono la iuta alle ben più nobili (e costose) tele di cotone o di lino. E nel novecento l’arte si divertì a giocare concettualmente con le materie di scarto, basse e popolari. Alla Fontana di Marcel Duchamp (un semplice orinatoio issato su di un piedistallo che diede l’avvio al ready made, cioè all’opera d’arte già pronta, presa tale e quale dalla vita) fece eco la Merda d’Artista di Piero Manzoni (novanta barattoli di conserva riempiti con la più terrena delle materie organiche). E che dire dei quadri che Andy Warhol realizzò con le riproduzioni in serie delle lattine Campbell (per la precisione, si trattava di zuppa industriale), o dei graffiti sugli umili muri di mattoni newyorkesi di Jean Michel Basquiat?



Del resto la plastica non biodegradabile contiene già in sé uno degli elementi cardine di ogni capolavoro che si rispetti: l’immortalità. Ecco allora che in un miscuglio di provocazione, sfida, denuncia e afflato ecologico si approda alla street art dello statunitense Joshua Allen Harris. L’eccentrico artista della Grande Mela crea i suoi “Balloon Animals” posizionando i sacchetti di plastica sopra le grate della metropolitana. Al passaggio dei treni i sacchetti si gonfiano d’aria, e creano spontaneamente bizzarre figure di animali: orsi, scimmie, giraffe. La finalità è fin troppo dichiarata, trasformare l’ordinario in straordinario. Soltanto una de-contestualizzazione della creatività può farci riflettere che non è arte solo ciò che si trova dentro una cornice.



Nel 2009 alla Mostra del Cinema di Venezia suscitò molto clamore il cortometraggio “Plastic bag” del giovane statunitense Ramin Bahrani. E’ la storia, a tratti perfino commovente, di un sacchetto di plastica che va alla ricerca del suo creatore (e nel frattempo, del tutto inconsapevolmente, inquina strade, campagne e spiagge). Ancora una volta un subitaneo cambio di prospettiva. In questo caso l’inanimato che diviene animato, la personificazione di un oggetto che si ribella alla propria funzione di banale sporta per la spesa.



Ed è seguendo questa scia che l’artista camerunense Pascale Marthine Tayou sbarcò nel 2012 al Macro- il museo capitolino dedicato all’arte contemporanea- con un’imponente installazione che consisteva in una cascata di diecimila sacchetti colorati infilati dentro a una rete metallica. Secondo Tayou: “Il sacchetto di plastica è un elemento popolare che appartiene a tutto il mondo, è qualcosa di universale nella sua utilità e nella sua inutilità”.



Luca Ricci (Twitter: @LuRicci74)