Quattro anni fa se ne andava Bonelli, maestro d’impresa e di fumetti

Quattro anni fa se ne andava Bonelli, maestro d’impresa e di fumetti
di Luca Ricci
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Venerdì 9 Ottobre 2015, 23:17 - Ultimo aggiornamento: 10 Ottobre, 11:03
Sono già quattro anni che Sergio Bonelli è scomparso a causa di una malattia fulminante. Se n’è andato com’era vissuto, senza troppe smancerie, da pratico e bonario meneghino qual’era. Dopo aver rilevato l’impresa dal padre Gian Luigi nel 1957 ha continuato per tutta la vita ad alternare brillantemente il ruolo di editore a quello di autore (sotto lo pseudonimo di Guido Nolitta). In lui l’uomo d’affari e il creativo coabitavano senza sforzo, e anzi si davano una mano a vicenda. Si sentiva così Bonelli, quasi fosse il capostipite strampalato dei tanti personaggi di successo a cui ha dato i natali e che intere generazioni di ragazzi hanno continuato a leggere di straforo sui banchi di scuola (da Zagor a Mister No, da Ken Parker a Nathan Never): un artista del danè e un impresario del talento.



L’impronta della famiglia (la madre Tea fu a lungo a capo dell’editrice) era stata chiara fin dall’inizio: produrre fumetti popolari che non venissero mai meno alla qualità (qualità a 360 gradi: storie e disegni, inchiostro e carta). Ma eravamo pur sempre nell’Italia degli anni ‘50 e ‘60, impreparata ad accogliere nuove forme di cultura pop che non fossero quelle conformiste della nascente televisione pubblica. Un’orda di intellettuali apocalittici si scagliò contro le pubblicazioni da edicola, figlie di un dio minore. La semiotica, con i suoi studi sulla cultura di massa, faceva i primi vagiti, e il postmoderno imperversava soltanto in qualche campus nord-americano. Arrivò poi la guerra fredda, e i maitre à penser italiani inforcarono gli occhiali spessi dell’ideologia. Fece discutere perfino la figura di Tex Willer: per alcuni era di destra perché voleva farsi giustizia da solo; per altri invece di sinistra perché era amico degli indiani. Sergio Bonelli ha sempre minimizzato, dichiarando che per lui valeva un unico principio: quello di fabbricare storie avventurose, alla Salgari.



Le critiche proseguirono almeno fino all’avvento di Dylan Dog (correva l’anno 1986). Dopo quella data leggere fumetti diventò un gesto anticonformista e, a suo modo, perfino chic. Ma per troppi anni- per decenni- non si è voluta vedere la grandezza di questa impresa tutta italiana che è riuscita da sola a tenere testa alle corrazzate dei Marvel Comics statunitensi o dei Manga giapponesi. E l’ha fatto in un modo del tutto innovativo, creando un’indimenticabile galleria di antieroi sospesi tra realtà e fantasia, circostanza nient’affatto scontata per dei fumetti, dove il principio elementare dei buoni contro i cattivi è sempre il benvenuto. Zagor come superpotere ha soltanto una scure; Mister No pilota un Piper scassato ed è sostanzialmente un vagabondo; Ken Parker prende le mosse da uno spaghetti-western ma ha la complessità (e la fragilità) psicologica di Amleto; Dylan Dog indaga i suoi incubi prima ancora di quelli dei suoi clienti ed è un donnaiolo impenitente; Nathan Never abita in un futuro plumbeo alla Blade Runner… In più, autentico tratto distintivo Bonelliano, i protagonisti sono spesso affiancati da vere e proprie spalle comiche (Cico, Esse-Esse, Groucho), fatto impensabile per il tradizionale e noioso supereroe classico.



Tra i tanti meriti di Sergio Bonelli ce n’è uno che non accade mai per caso: quello di aver catalizzato attorno a sé un imbarazzante numero di sceneggiatori e disegnatori geniali. Da Paola Barbato a Roberto Recchioni, da Tiziano Sclavi a Luca Enoch. A chi gli faceva notare che ultimamente (in tempi di forte crisi e concorrenza) i suoi albi pullulavano di temi politicamente corretti- ambientalismo, lotta alla droga, maltrattamento e abbandono degli animali, lavoro precario-, rispondeva serafico che si trattava soltanto di espedienti per non perdere lettori. Eppure ha sempre guardato al mondo del merchandising con sospetto, e soltanto con Dylan Dog gli è capitato di cedere i diritti per lo sfruttamento cinematografico da parte di terzi di un suo personaggio. La verità è che Sergio Bonelli credeva nel fumetto in sé, come mass media e come mezzo espressivo. Ed è questa semplice convinzione, probabilmente, il suo lascito più importante.



Twitter: @LuRicci74