In principio fu la pubblicità: quel paese delle meraviglie brutto e irresistibile

In principio fu la pubblicità: quel paese delle meraviglie brutto e irresistibile
di Carmine Castoro
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Venerdì 30 Gennaio 2015, 18:48 - Ultimo aggiornamento: 1 Febbraio, 17:15
Sta per partire un nuovo reality show, presentato con grande sfavillio mediatico, di quelli dove ci si immerge nel “simbolico” della fame, del naufragio, della solitudine e della sopravvivenza, ma, all’improvviso le forze indomite e imprevedibili della natura interferiscono con il gioco stesso: vento che sferza gli alberi, mare forza 7 e un cielo plumbeo e inquietante. Stupenda nemesi del reale, qualche giorno fa, quella del tifone che ha reso impraticabili i collegamenti fra la terraferma e l’arcipelago di Cayos Cochinos in Honduras, impedendo di fatto la partenza dell’”Isola dei famosi” su Canale 5, con i concorrenti, Rocco Siffredi e Catherine Spaak in testa a tutti, bloccati al sicuro in un albergo. Una meravigliosa vendetta del dio del Clima che Signorini da studio ha commentato: “Una bella lezione di vita”.



E già. Il mondo in cui viviamo ha tele-morfizzato, sembra irreparabilmente, le cifre più autentiche della nostra quotidianità, quella che tragicamente si è sempre confrontata con l’inconsueto, l’ineffabile, l’Evento con la e maiuscola. E tutto sembra intrappolato nella corrente alternata dell’intrattenimento e degli oggetti-feticcio che la pubblicità ci rimanda ogni giorno come unico universo dove giocarci fiducia, salvezza, equilibrio, senso della comunità.



Su questa interessantissima lunghezza d’onda si snoda il libro del giovane studioso milanese Marco Maggio, esperto di comunicazione e costume, e curatore della rubrica “Provox” per diversi blog, autore di questo illuminante “In principio fu la pubblicità” (Editrice “il prato”, pagg. 231, euro 15), presentato ufficialmente a Milano in questi giorni nella splendida cornice del concept store “EntrataLibera”.



Pubblicità come una sorta di “paese delle meraviglie”, quindi, e non a caso Maggio utilizza la metafora della Alice e del Cappellaio Matto, della notissima opera di Lewis Carroll, per dirci che la dimensione tele-commerciale della Società dello Spettacolo ci ha defraudato dell’”Alterità”, del “thauma”, termine della grecità classica, che era lo sgomento di fronte all’incomprensibile, e che condannava ad una incessante ricerca di senso e di rispetto per tutto quanto sfuggiva alle griglie del Vero e del Giusto. Oggi, invece, avverte Maggio in un'opera di grande lucidità intellettuale e forte tempra etica e dissidente, siamo di fronte a “un mondo che si sprigiona in tutta la sua bruttezza, in un’epifania di mistero e bellezza insieme che ne rende accecante la visione”.



Pur tuttavia gli spot ci riempiono di amori, domesticità, di cose “semplici”, di prodotti dell’immaginazione take away, sacralizzano la famiglia, ostentano l’infanzia, ci vogliono sexy, vincenti, dominanti, immortali. Ricetta televisiva perfettamente postmoderna, del tutto in linea con quello che sosteneva Jean Baudrillard quando diceva che, più il potere delle immagini è convulso, transustanziato, virtualizzato, disneyzzato, più rischia una defezione, e dunque scatta l’esigenza “di iniettare nuovamente, dovunque, reale e referenti, persuadendoci della realtà del sociale, della gravità dell’economia e delle finalità della produzione”; soprattutto mette in campo “questa ideologia del vissuto, di esumazione del reale nella sua banalità di base, nella sua autenticità radicale”, per ovviare all’incestuosità senza incrinature dei segni con le cose.



Ecco, allora, imprenditori abbronzatissimi che dicono che la loro industria “non vende sogni, ma solide realtà”, o quelli che dicono che la loro grappa “è come appare”. Una sorta di valvola del troppo che va svitata alla bisogna, per far esalare la propalazione mediatica ad altissima concentrazione che spinge proprio verso la nebulizzazione del reale. Ecco allora la console Ps che si chiama “Vita” e la Coca Cola che personalizza le lattine con il nome di un parente o di un partner, o con appellativi tipo “amore” o “papà”.



E’ come se ci trovassimo di fronte a un Quantitative Easing del/nel televisivo equiparabile a una BCE che favorisce un “allentamento quantitativo”, ovvero crea denaro fresco e ritira titoli di Stato che possono differire nuovi investimenti. Il “reale” degli affetti, della filìa e della franchezza nell’environment ipermediatico è questo alleggerimento che porta a una facilitazione della sopportazione, sia della mancanza di per sé che di ciò che se ne fa servizio di fornitura. Ma come l’economia dello spread, nonostante il QE, si riconferma il vero propellente dei mercati internazionali, così l’economia dello spray, antropologicamente parlando, porterà comunque a una ebollizione che, per rimanere nella metafora culinaria, farà debordare l’acqua dal pentolone.



Un vero e proprio brandscape (da brand marchio e landscape paesaggio) che così Annamaria Testa, citata nel libro di Maggio, definisce: “… essere immersi in un continuum seduttivo-persuasivo che si configura come visione del mondo, e di noi stessi, preliminare e funzionale alla scelta di consumare”.



Si squaderna, allora, nelle pieghe della nostra coscienza e davanti ai nostri occhi, quella che Diego Fusaro, docente di Storia della Filosofia all’Università Vita-San Raffaele di Milano e curatore della collana “I Cento Talleri” dove è confluito il testo di Maggio, dice nella prefazione dello stesso parlando della “dittatura della pubblicità”: “Il suo inconfessabile obiettivo è trasformare l’umanità in un pulviscolo di atomi deterritorializzati e anglofoni, senza identità e senza cultura, ignari cultori della propria schiavitù, ciechi ripetitori della liturgia consumistica e del cattivo infinito del ciclo mortifero dell’acquisto di nuove merci, incapaci di immaginare un mondo alternativo rispetto a quello della reificazione in atto e della forma merce innalzata a solo orizzonte di senso”.



Siamo tutti come Alice, storditi e inebetiti di fronte all’incandescenza caleidoscopica di prodotti sempre nuovi da comprare e di un marketing sempre più seduttivo e addomesticante? Siamo tutti come il Cappellaio Matto che insegue nella popolare fiaba un Tempo che non è durata e riflessione, ma istante e urgenza, verso un qualcosa che non si afferra mai? Dice il giovane studioso milanese: “Il viaggio di Alice comincia con un buco nella terra che conduce in un luogo sotterraneo, pieno di simboli misteriosi e di personaggi inquietanti, mai fermi nello spazio e nel tempo eppure eternamente chiusi in quel mondo, al pari di un qualsiasi prodotto pubblicizzato nella scatola televisione: un buco nero, da spenta e non, nel quale si cade, s’inciampa, forse per noia”.



Una noia che i “consigli per gli acquisti”, da troppo tempo ormai, si sono prefissati di “guarire” con una bisaccia di merci inutili il cui possesso è più infelice del male che vorrebbero distruggere.