Margaret Atwood: «Tramandare storie
è l'unico antidoto contro la violenza»

Margaret Atwood: «Tramandare storie è l'unico antidoto contro la violenza»
di Renato Minore
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Sabato 20 Settembre 2014, 14:44 - Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 18:50
Ne ha scritto finora una quarantina, oltre a saggi, poesie, libri per bambini. Ma a quasi ottanta anni, un'et in cui mostri sacri come Roth e la sua amica conterranea Alice Munro si ritirano dalla scena letteraria, Margaret Atwood ancora attivissima, continua a scrivere non solo romanzi. L’ultimo, «L’altro inizio», appena uscito da Ponte della Grazie con cui si termina la trilogia distopica composta da «L'ultimo degli uomini» e «L'anno del diluvio», racconta le vicende dei sopravvissuti Toby, membro della setta dei Giardinieri di Dio, e Zeb, capo dei Maddamiti, che combattono il bioterrorismo delle corporazioni. Lo sfondo è un mondo postpandemico, abitato da strane creature come i mansueti e quasi umani Crakers e gli spietati "gladiatori" Painballers. Lo sfondo è di un pianeta in un immediato futuro, in preda a bande di ecoterroristi, mentre gruppi di sopravvissuti (da un diluvio-ecatombe) lottano fra loro. Dilaga un’epidemia che può ricordare Ebola, la sperimentazione genetica ha come effetto la sottomissione e il sacrificio della donna. E' un apologo morale o fantascienza?La Atwood ha sempre esplorato altri mondi, ma la sua science fiction è sempre stata più ”1984” che ”Star Trek”. Cose che potrebbero accadere e in una certa misura sono accadute, come il cambiamento climatico, la società teocratica che opprime le donne, la carne da laboratorio, i maiali ogm, piuttosto che invasioni di marziani o fantasie tecnologiche.



La Atwood che è in Italia per la prima volta, ha presentato a Roma all’Argentina per il Festival Letterature il nuovo romanzo e oggi (sabato 20 settembre) è ospite a Pordenonelegge. Nel suo primo incontro romano la scrittrice canadese, che ha vinto nel 2000 il Brooker Prize con "L’assassino cieco" ripubblicato per l’occasione sempre da Ponte delle Grazie, ha dichiarato un interesse compulsivo per la scienza, frutto di un'infanzia passata nel laboratorio del Quebec, tra nevi e foreste dove il padre, entomologo, studiava gli insetti. Anche lei assomiglia a un insetto. Tra un insetto e un uccello. Piccoli zigomi prominenti, lo sguardo trasparente e obliquo, il viso a mandorla incorniciato da una corona fitta di capelli argentati e ricci, due occhi piccolissimi, chiarissimi e pungentissimi, l’ironia costante che acompagna ogni sua parola. «Mio padre era un ricercatore, botanico e biologo che amava molto anche la lettura di opere di narrativa, storia e poesia. Mio fratello ed io eravamo entrambi bravi sia in scienze sia in letteratura inglese, per cui c’erano aperte entrambe le strade. Lui è poi diventato biologo. D'altra parte ho una zia che scrive libri per ragazzi. Sono convinta che scienza e narrativa si pongano entrambe domande tipo "Che cosa succederebbe se." "Perché?" "Come funziona questo?"».



Miss Atwood: però molto forti sono gli attacchi a quella scienza che rinuncia a una visione umana del mondo, che dimentica e annulla l'esigenza più profonda dell'umanità: la spiritualità in tutte le sue molteplici espressioni. La sua Trilogia si sofferma molto sui rischi della scienza.



«Questi miei libri non si oppongono alla scienza. Io stessa sono una scienziata, o quasi. Ogni tecnologia può essere usata a scopo buono o cattivo e può avere effetti non previsti. Ma quando l'uomo crea in laboratorio nuove forme di vita, si apre il vaso di Pandora, si fa uscire il genio dalla bottiglia. La scienza è un mezzo per conoscere il mondo che ci circonda, e come tutti i mezzi può essere usata per bassi fini, può essere venduta e comprata, come spesso accade, ma in se stessa non è un mezzo cattivo: è neutrale, come l'elettricità. Come ha sempre scritto ogni poeta, da Yeats a Blake, la forza che muove il mondo è il cuore umano, sono le emozioni. E queste ultime diventano sempre più forti. È l'odio a distruggere le città, non le bombe. Mi chiedo allora se come specie abbiamo la maturità emotiva e la saggezza indispensabili per fare buon uso di questi mezzi tanto potenti. E sfido ad alzare la mano per rispondere che le abbiamo. »



Ma alla fine chi è responsabile dell'Apocalisse? Sono gli scienziati, i politici, i fondamentalisti?



«Gli esseri umani hanno davanti a sé una tavola con tutte le cose che vogliono. Le hanno sempre volute. Hanno sempre voluto volare, e ci sono riusciti. Hanno sempre voluto essere immortali o belli come gli dei. Hanno sempre voluto possedere l'arma che non fallirà. La scienza non fa quello che gli uomini non vogliono. Ma ormai siamo al limite. Per esempio per quello che riguarda la popolazione. Nel 2050 ci vorrebbero tre Terre per sostentare gli abitanti del pianeta. Bisogna diventare intelligenti molto rapidamente se non vogliamo produrre qualcuno come Crake che alla fine trovi il modo di renderci meno numerosi».



E’ possibile pensare che nei prossimi anni ci saranno casi di bioterrore o di bioerrore avvenga di qui al 2030?



«Non è facile fermare la scienza. Ma intanto noi possiamo cominciare a rifiutarci di comprare tante cose che la scienza produce. A cominciare dai polli iniettati di ormoni e cose simili. In Canada certe campagne d'informazione sui consumatori hanno dato ottimi risultati. In somma la scienza è troppo importante per lasciarla agli scienziati. Del resto non c'è uno di loro che non sia consapevole di quanto facile sia produrre conseguenze non volute. E' che guardano da un'altra parte. Mio padre raccontava sempre un aneddoto: uno scienziato beve wisky con ginger ale e si ubriaca; allora beve vodka con ginger alec si ubriaca lo tesso; infine mischia il ginger ale al porto e poiché si ritrova sbronzo conclude che il ginger ale fa ubriacare».



Perché ha aderito al programma "La biblioteca futura" accentando di scrivere un romanzo che sarà pubblicato tra cento anni di cui non leggerà mai le recensioni, di cui non saprà mai se piacerà o meno ai lettori, di cui non conoscerà mai i dati delle vendite?



«E’ un’idea molto attraente, molto ottimista. Parte dal presupposto che tra cento anni, esistano ancora gli uomini, che ci sia ancora chi legge i libri e che ci sia ancora la Norvegia. Le par poco? Il futuro non è prederminato, le sue infinite possibile dipendono dalle nostre scelte"Il pianeta sopravviverà. C'è sempre un'abbondante speranza. Ma non so che fine faremo noi?»



Sul futuro lei sembra avere comunque idee molto chiare, che con gli anni diventano realtà, o quasi.



«Ma mi sono sbagliata sul futuro del libro. Alcuni anni fa anni pensai e scrissi che la lettura digitale avrebbe conquistato l'editoria facendo scomparire i libri di carta. E non ci sarebbero più stati libri di carta. Non è così, c’è stato un blocco. Si legge la carta e si legge on line. E molti preferiscono l'ebook in viaggio, ma per un regalo scelgono ancora il libro».



Ma in che cosa l’occhio dello scrittore è più attrezzato a cogliere la realtà le sue trasformazioni, il senso del dove si sta andando?



«Gli esseri umani s’identificano più in una storia che nelle cifre sia pure documentatissime. La nostra capacità di ragionamento è legata alla capacità di sentire emozioni, le storie hanno la funzione di una mappa. Espongono il lettore all’interrogativo: ecco c’è la mappa, è qui che vuoi andare. Con la scrittura si tramandano le storie e tramandare storie è l'unico antidoto che abbiamo contro la violenza e il suo eterno ritorno».



E qual è l’emozione più forte che le resta, la ricompensa più gradita che sopravvive dopo aver raccontato tante storie?



«Il ricordo della mia prima poesia che ho visto pubblicata. Ineguagliabile emozione, ricompensa per tutto quello che è venuto anche dopo. Ogni altra storia successiva è stata un brivido, certo ma nulla in paragone a quello choc dell’inizio».
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