La grande bellezza di Roma, da Sorrentino a La Capria

Luca Ricci
di Luca Ricci
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Venerdì 17 Ottobre 2014, 09:23 - Ultimo aggiornamento: 18 Ottobre, 07:33
Non è passato neanche un anno da quando, fresco di Oscar come miglior film straniero, “La grande bellezza” di Sorrentino veniva trasmesso in prima serata da Canale 5 e totalizzava quasi nove milioni di telespettatori. Come la nazionale di calcio, come il Festival di Sanremo. Insomma Paolo Sorrentino aveva bisogno il più in fretta possibile di un antidoto (o di un bugiardino), ed è proprio in questo senso che va interpretato “La Bellezza di Roma” (Mondadori, pag. 84, 10,00 €) di Raffaele La Capria, bouquet di pezzi sulla Città Eterna.



Esattamente come Servillo/Gambardella, Raffaele La Capria non ancora trentenne approda a Roma dalla Campania pieno di great expectations. Allo stesso modo di Servillo/Gambardella, Raffaele La Capria coltiva ambizioni artistiche che nel suo caso si tramutano ben presto in un alienante impiego come funzionario della Rai (per Servillo/Gambardella invece c’è il purgatorio del giornalismo culturale). Analogamente a Servillo/Gambardella che ottiene il Premio Bancarella con il romanzo “L’apparato umano”, Raffaele La Capria ha il suo momento di massima notorietà nel 1961, vincendo il Premio Strega con “Ferito a morte”. In modo pressoché identico rispetto alla coscienza del vuoto di Servillo/Gambardella, Raffaele La Capria con gli anni prende atto che Roma è soltanto l’insensata Direzione Centrale di tutti gli Uffici di Direzione, una città dove non ci sono fabbriche, che non produce niente, che dovrebbe amministrare non si sa bene che cosa, specializzata solo in Rovine & Morte: “Da Caput Mundi a Kaputt Mundi”.



Insomma “La bellezza di Roma” di La Capria sembra la biografia ufficiale di Servillo/Gambardella, scritta in anticipo di anni sul soggetto di Sorrentino e Contarello. D’altronde “La Grande Bellezza”, talvolta, pare a sua volta il prequel de “La dolce vita” di Federico Fellini, e non il contrario. Questo ribaltamento è vero, clamorosamente, in tutta la parte religiosa, dove Fellini con la scena dei bambini che dicono di aver visto la Madonna ha saputo essere più ironico e più poetico, in una parola più (post)moderno di Sorrentino con la sua Santa iperrealista buona più per un’opera di John De Andrea che per un lungometraggio. La linea del tempo cronologico può benissimo essere piegata a proprio piacimento come un pezzo di fil di ferro, se è vero quel che sostiene La Capria: “A Roma la realtà è solo un momento dell’apparenza”.



In un altro passaggio di questi prelibati pezzettini La Capria invece dice che quando il sole riesce a vincere sul senso generale di disfacimento dato dai monumenti e amplificato dal degrado urbano- arriva ad auspicare l’istituzione di un tipo speciale di Vigile laureato in Storia dell’Arte con tanto di libretto per le contravvenzioni al senso dell’Estetica (la bellezza, di nuovo, su tutto)-, la luce diventa così pura, l’azzurro del cielo così intenso che “sembra non si possa reggere la pienezza del reale”. Forse l’unica è prenderla con leggerezza (mai a ridere però, ché la risata può trasformarsi in un ghigno e Servillo/Gambardella è dietro l’angolo), munirsi già vecchi di un cane bassotto e uscire per raggiungere l’edicola di piazza Navona: “Se le gode tutte il cane le puzze di Roma, a una a una, tirandole su per l’imbuto del naso, come una droga”.



Twitter: @LuRicci74