Tutti i limiti della "digital life": automatizzati e disumanizzati

Tutti i limiti della "digital life": automatizzati e disumanizzati
di Carmine Castoro
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Giovedì 27 Agosto 2015, 05:41 - Ultimo aggiornamento: 28 Agosto, 17:38
Che cosa succede se seguiamo ciecamente le indicazioni stradali di un navigatore satellitare? Sicuramente arriviamo a destinazione spediti e senza grossi patemi, ma ci stacchiamo quasi completamente dalla percezione dell’ambiente circostante, prestiamo meno attenzione agli imprevisti non riportati dal gps, alla segnaletica nuova, alle condizioni climatiche o dell’asfalto, e probabilmente ci andremo a cacciare in qualche guaio automobilistico. In pratica è come se appaltassimo all’esterno il nostro cervello e ci dimenticassimo di essere, pur sempre, “animali” che hanno sentieri da percorrere e trappole da sventare. Stesso dicasi per una grossa nave che si affida ai ricognitori elettronici per il mantenimento della propria rotta, dimenticandosi, lo staff degli ufficiali di bordo, che anche le più sofisticate apparecchiature vanno a batteria o a corrente elettrica, e che una perdita di tensione può causare sciagure di portata enorme – come avvenne per la Royal Majesty nel 1995, direzione Boston, per fortuna senza feriti, o in casi più recenti delle cronache marittime e giudiziarie italiane. E se un medico si basa per una diagnosi sui sistemi di rilevazione “computer-aided”, che succede? Che molte malattie, tumori maligni in testa, vengono smascherati subito e curati prima, senz’altro. Ma anche che, seguendo i luminosi sentieri dei bit su uno schermo, non si guardano altre cose, macchie, patologie minime, disfunzioni meno vistose, là dove le aree non sono state evidenziate dalle radiografie così ben pilotate dall’occhio cibernetico.



Compiacenza, condizionamento subliminale, “cecità attenzionale”, “distrazione sapiente” sono alcune delle distrofie, potremmo definirle così, della nostra innata capacità di stare al mondo, che scattano quando dimentichiamo di affrontare direttamente le asperità della realtà, delegandone la gestione a sistemi esperti, ausili informatici, screening che rasentano la perfezione, ma che ci de-soggettivizzano sempre più, senza impedire che un urto più forte ricevuto da quello che ci circonda mandi a gambe all’aria la nostra supponente sicurezza. Nicholas Carr, illustre esperto di digital life, ci accompagna nel suo ultimo bellissimo libro La gabbia di vetro (Raffaello Cortina, pagg. 294, euro 25), opera di grande valore didattico e filosofico, in quel vero e proprio labirinto del mondo ipertecnologizzato nel quale viviamo immersi, là dove il tenue filo di Arianna, ben impersonato da qualche cavo di informazioni ottiche, molto spesso si spezza riconsegnandoci a una imprevista angoscia.



Carr, noto al grande pubblico per vari testi molto critici sul tecno-habitat che oramai ci segrega dolcemente condannandoci alla simultaneità dei dati e a una trasparenza assoluta, esegue una affascinante e spietata disamina della cornice che offre la dilatazione sensoriale scaturita dalle iperconnessioni che pratichiamo ogni giorno sul computer: sortilegio dell’immediatezza, azzeramento della fisicità e delle relazioni; illusione di un patrimonio comune (di foto, di ricordi, di idee, di like), collasso del sentire e delle trasformazioni reali. E’ l’”effetto degenerazione”. Dice Carr: “Se il software riduce l’impegno che mettiamo in una certa occupazione, e in particolare se ci confina al ruolo passivo di osservatori o controllori, evitiamo la profonda attività di elaborazione cognitiva che è alla base dell’effetto generazione. Come risultato, ci impediamo di arrivare a quella conoscenza ricca, centrata sul mondo reale, che porta al vero know-how”.



Che, poi, è anche quello che ogni giorno facciamo sì che accada nei nostri “vizietti” da web-dipendenza. Sicuramente ci sono attestati di reciprocità sulla Rete, di dono senza contraccambio, di condivisione di file e di risorse; si parla tanto di software e hardware scaricabili free, senza copyright e diritti di proprietà, di enciclopedie multimediali e in progress come Wikipedia, di una economia “vernacolare”, per dirla alla Latouche, affrancata dalle imposizioni mercantili, e molte interazioni fruttuose e mutuali non hanno più bisogno di luoghi specifici di adempimento e di presenze fisiche fra i contraenti. E’ pur vero, però, che parlare di una gemeinshaft fatta di esperienze condivise e di legami caldi e accoglienti è pura eresia.

La materialità delle emozioni e degli sguardi, il vincolo biologico, il fronteggiare problemi pratici, il simbolico orientato da costumi, leggi, identità, prospettive di empowerment, non depone certo a favore di uno stare-insieme di tipo solo astratto, faceto o algido, quello, cioè, che schermi e display ci rimbalzano ogni giorno dalle più raffinate interfacce cellulari che custodiamo nei nostri taschini o che troneggiano come totem sulle nostre scrivanie. Non è web-pessimismo, ma il puntare il dito su una piaga che per Putnam, ad esempio, è “cyberbalcanizzazione”, processo che accentua il declino civico; mentre per Bauman, l’assenza di una sorta di pesantezza dell’essere, se così possiamo di dire, e di un face to face fra soggetti agenti, è l’indizio di una pseudo-comunità fatta di “legami senza conseguenze”, patti passeggeri e spesso scellerati, e avventurismo da laptop senza il dogma sacrosanto della responsabilità.



E allora via libera alle mitragliate di selfie dove tutti sono sempre allegri, abbracciati, soddisfatti e con un cocktail esotico in mano. Via libera alle piramidi di “amici virtuali” sui social network dove siamo solo epidermicamente “seguiti” da illustri sconosciuti che ci abitano a centinaia di chilometri e con i quali non abbiamo mai condiviso nemmeno un cappuccino, figurarsi l’amarezza di un lutto o di una sconfitta esistenziale. Via libera ai protocolli e alle tracciature di un sistema reticolare che ci rimanda di noi stessi l’immagine distorta di una personalità che avrebbe sempre gli stessi gusti dopo un acquisto su Amazon, che cercherebbe sempre le stesse categorie di interlocutori dopo averne aggiunto uno di un certo tipo, e che però, guarda caso, come avviene su Facebook ormai da tanto, se vuole far arrivare nella mail di uno sconosciuto un messaggio (elemento davvero basico di una sincera socialità), deve pagare una bella manciata di monete, pena il vederselo recapitare nella cartella “Altri” dove, in pratica, non sarà mai letto.



Un allarme lanciato anche dalla professoressa Maria Amata Garito, rettore della Università telematica internazionale Uninettuno, nel suo “L’università nel XXI secolo tra tradizione e innovazione” (McGraw-Hill Education, pagg. 160, euro 21), quando dice: “La Rete è uno spazio sconfinato che vive ancora nel caos dei comportamenti dei singoli, gli utenti contemporaneamente sono fruitori e distributori di contenuti, sono produttori di conoscenze, conoscenze spesso molto soggettive tanto che è difficile per un utente non esperto valutarne la veridicità”. Come nel caso degli output di Google quando facciamo una ricerca, sottolinea la Garito: che cosa esce fuori? Sicuramente le voci che appartengono a siti e privati che hanno pagato per essere in prima fila nella schedulazione di quel lemma, non certo quelle che hanno un più alto tasso di scientificità e pregnanza culturale, o non per forza. Col rischio di alimentare la consultabilità di alcune info quanto più vengono cliccate. Un serpente che si morde la coda e che ci allontana da un’idea di ambiente vissuto, relato, veritiero.



L’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale, dunque, non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da convogliare e soffocare nelle maglie di un mercato sempre più smart. Accorgerci in tempo di questo lento precipizio è la sfida del nostro futuro. Bisogna creare una “nuova Atene” su Internet, propone la Garito, “i nuovi architetti della Rete non hanno ancora veramente creato nuovi stili per rappresentare il reale nel virtuale”.