Franco Ferrarotti, "La parola e l'immagine", libro vademecum contro il Tele-Impero

Franco Ferrarotti, "La parola e l'immagine", libro vademecum contro il Tele-Impero
di Carmine Castoro
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Giovedì 20 Novembre 2014, 06:01 - Ultimo aggiornamento: 13:02
Dritta e legnosa come una freccia che si conficca nel cuore, ma anche suadente e morbida come la sontuosa arte affabulatoria del suo autore, l’ultima fatica letteraria di Franco Ferrarotti, “La parola e l’immagine”, ci fa capire cosa stiamo perdendo su un piano estetico e antropologico con il pervasivo, tentacolare mondo dell’immagine rispetto a quello riflessivo ed evolutivo della parola, del “verbo” parlato, scritto e tramandato.



E lo fa soprattutto con una frase icastica e lapidaria, quando l’insigne sociologo ci dice: «La cultura cessa di essere auto-coltivazione», cedendo il passo, dunque, ad una sinistra semina del Banale, al “maestoso mutismo” del visuale allargato che ha soppiantato quasi del tutto la forza etica e politica del nostro mondo interiore, del senso del tempo, della nostra autenticità profonda, della delicata filigrana che unisce il passato al futuro passando per il progetto dell’umano. Un’alluvione di segni, informazioni, stimoli sensoriali, tastiere da pigiare e news da cui farci sommergere in quello che Ferrarotti definisce “confusionarismo pratico” e “disordine teoretico, miscellaneo e gratuito”, ci ri-territorializza incessantemente sui non-luoghi delle mode, del virtuale, dei facili stupori, delle interfacce telematiche che ci assorbono senza più educarci e sollecitare il nostro spirito critico. Trasformandoci in una platea di “informatissimi, frenetici idioti”.



E, che si occupino di notizie strambe e incongrue, o che ci offrano scorci spaventosi di tragedie immani, calamità naturali, terribili incidenti aerei o ferroviari, i media mainstream, - ha ragione Ferrarotti - paradossalmente, ci rassicurano, sospingendoci verso microcosmi privatistici forgiati sul panico asociale, o in quello stato di pazzia foolish grazie al quale ci dilettiamo con dati o immagini in versione snack, corticali, light, diluiti, magari scaricati all’impronta dai nostri device mobili, troll senza passato e futuro, boli informatici che metabolizziamo senza riflussi o inappetenza. Una poltiglia di dati prende il posto di prospettive lungimiranti, di classificazioni dei fatti che spingerebbe a scelte oculate e scale di priorità riviste e corrette in chiave comunitaria; dietro il proscenio del giornalismo ufficiale, la speranza latita, la costruzione recalcitra, la visione di mondi possibili è sempre avvolta da una tempesta di sabbia che soffoca rabbuiando il nostro sguardo, i significati sociali sono depredati o calmierati.



Alla casta degli “informatori” manca quasi del tutto quell’etica di ascolto profondo della nostra natura, e oltremodo l’etica di un divenire delle cose che ci rimanderebbe l’idea positiva della vita come sempre perfettibile, migliorabile, puntellabile quantomeno nelle sue ingiustizie più clamorose, e non smunta e ridotta in una ridda di storie minime e pretestuose che si disperdono in mille fiumiciattoli. Il testo di Ferrarotti è un vademecum di resistenza al Tele-Impero e ci spinge non a circumnavigare il reale abboccando a pseudo-narrazioni consolatorie o urticanti, ma a svelare l’universale che si nasconde sotto il molle terriccio del particolare, a occuparci dei temi psicologici, sociali e politici che trascendono l’attuale più spartano e sporadico.



Senza memoria storica, senza visuali aggregative e punti di sintesi, senza spirito propositivo sulle cose future che riguardano tutti, l’informazione abdica a quell’umanesimo che dovrebbe ispirarla e illuminarla e si mostra come un’ars combinatoria di basso livello, un affastellato senza impalcatura, un pulviscolo di fatti che ci brucia e infastidisce, consacrando quel nichilismo mortificante di tutta la contemporaneità, sempre pronta a scagliarsi a velocità impazzita verso un irenismo ibrido e ambiguo. Un movimento che potremmo definire discensionale, e che in questa allegoria spazio-temporale mette d’accordo parecchi autori.



Dice Guido Ceronetti, per esempio, col suo stile "diabolico" nella travolgente ultima raccolta di aforismi “L’occhio del barbagianni” (Adelphi): “Nell’Europa occidentale (l’Italia è esemplare) il degenerare della democrazia non sboccherà più in malvagi poteri totalitari. Si andrà di degenerazione in degenerazione, di legalità in legalità formali incurabilmente amorfe, prive di linfa, di sfinimenti in sfinimenti di ogni principio, in un crescendo di Insignificanze. I limiti della ragione e l’illimitatezza dell’inebetimento regoleranno l’ethos delle nazioni formalmente liberali”. Ecco, in questo manicomio-soft fatto di conduttori ignoranti, giornalisti disinformati essi stessi, reality e pubblicità sempre più invasivi e suggestionanti, Ferrarotti fa la parte di un gentile medico delle anime che ci illumina con sobrietà il cammino del riscatto.



Franco Ferrarotti è professore emerito di sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”; vincitore del primo concorso bandito in Italia per questa materia; già responsabile della divisione “Facteurs sociaux” all’Oece, ora Ocse, a Parigi; fondatore con Nicola Abbagnano dei Quaderni di sociologia nel 1951; dal 1967 dirige La Critica sociologica; nel 1978 nominato “directeur d’études” alla Maison des Sciences de l’Homme a Parigi; insignito del premio per la carriera dall’Accademia nazionale dei Lincei il 20 giugno 2001; nominato Cavaliere di Gran Croce l’11 novembre 2005 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.





Franco Ferrarotti “La parola e l’immagine” (Solfanelli, pagg. 109, euro 9)